Esempi essenziali della maniera preromantica

Le traduzioni dall’inglese, tedesco e francese, cosí abbondanti nel ventennio 1765-1785, ebbero come effetto non solo l’offerta di una conoscenza di nuove tendenze «ultramontane» a un pubblico di lettori e di letterati in crisi e suscettibili di subire influenze, ma soprattutto l’offerta di testi poetici ormai italianizzati, esitanti, compromessi, linguisticamente confusi quanto si vuole (donde le recriminazioni di puristi come il Vannetti), ma già indici di un gusto, di una poetica attuata in lingua italiana, confortata non tanto da lontani preannunci teorici quanto da contemporanee affermazioni estetiche vicinissime a calare in esercizio poetico. Con una possibilità di far vivere la propria poesia in schemi diversi e piú ampi che non apparivano del tutto incompatibili con la tradizione italiana se quei traduttori erano riusciti piú o meno bene a farli propri non evitando la linea tradizionale, ma anzi cercando in tutti i modi di adattarli alla lingua piú eletta e piú gelosa: quella della lirica. Si potevano ben scorgere suture, stridenti contrasti, bizzarri effetti nell’uso di nuove parole e nuovi motivi male assimilati, ma certo i traduttori e specialmente il Cesarotti avevano già fatto quella fatica di accordo che ogni letterato avrebbe dovuto tentare per conto suo se si fosse trovato di fronte al semplice testo straniero o ad una traduzione prosastica, letterale.

L’opera dei traduttori preromantici ebbe cosí in quel periodo della nostra letteratura una importanza veramente decisiva e provocò una moda che, nei suoi limiti di maniera, significò la precisazione e la sistemazione in costume letterario e in moduli stilistici di nuovi motivi poetici e sentimentali che, mentre agirono direttamente attraverso le traduzioni già medianti, si graduarono nell’accettazione piú convenzionale e formalistica attraverso questa moda diffusa. Moda, perché nella maggior parte dei casi non si tratta di poeti profondamente convinti di una nuova poetica, quanto di letterati attratti da un nuovo volto della poesia e ancora innamorati dei vecchi lineamenti settecenteschi (cosí nel Gozzi, Klopstock e Pope insieme ideali di poesia), spesso senza vero contrasto, dato che i piú accoglievano la nuova poetica come un’esperienza da accompagnare semplicemente a quella arcadica e illuministica. E certo ben piú vive anche rimangono molte traduzioni, tutte mosse dalla fatica e dall’entusiasmo di un nuovo mondo poetico, che non molte di queste variazioni su tema imitativo, scritte con un impegno di letterario tecnicismo, proprio in un tipo di espressione in cui l’essenziale era invece piú la esplosione sentimentale che non un’adesione tutta tecnica e formale.

Si accerti dunque questo limite che è particolarmente del letterato italiano settecentesco fino all’Alfieri, e che condiziona pericolosamente l’accettazione del nuovo gusto, sempre in pericolo di venir respinto dagli stessi suoi fautori in un improvviso rigurgito di tradizionalismo e di nuova indicazione di moda. Pericolo di una rivoluzione di moda superficiale che pur prepara in questo sussulto, in questa ondata, un ingresso di motivi poetici che, se non romperanno la tradizione proprio perché prontamente e spesso facilmente mediati, l’animeranno diversamente, sí che, sotto l’apparenza di un integrale classicismo, in Foscolo e Leopardi vivrà una tensione di gusto, un fremito nella costruzione letteraria veramente romantico: preparato cioè anche in sede letteraria e non solo introdotto da una improvvisa spiritualità romantica.

Del resto questi poeti che risentono nelle loro opere i motivi della poesia preromantica straniera sono spesso gli stessi traduttori che, partiti da una curiosità di nuovi mondi poetici, tornano al loro agire letterario impressionati dalla loro esperienza di traduzione e la proseguono indicando piú chiaramente (quando, come abbiamo mostrato per il Cesarotti, mancano dell’appoggio del testo) lo sfasamento in cui essi per lo piú si trovano, o accentuando in maniera persino ridicola i motivi nuovi senza un’interna giustificazione o proseguendo nella curva di discesa verso il loro primo gusto settecentesco.

Esempio prezioso di letterato che, mosso da curiosità di conoscenza e di mediazione[1], risale dalla traduzione e dalla presentazione critica dei testi scoperti ad una sua espressione artistica entro una ganga di altre esperienze e di altre mode letterarie, è per noi Aurelio de’ Giorgi Bertola, che già nella sua geografia sentimentale ci indica le direzioni e i rabeschi di una vita del letterato del secondo Settecento.

Per il suo incontro prelibato di grazia e di impeto, di tenera Arcadia sentimentale e di candore classicista, di europeo e di italiano, di dilettante scienziato e di colorista impressionistico, il Bertola, «l’abate epicureo sentimentale», si presenta come esemplare spaccato della moda preromantica nella sua direzione meno estrema, nella sua massima italianizzazione. Traduttore guidato piú di ogni altro se non da un discernimento fortemente critico, dalla precisazione di una zona di preferenze già sicura, in cui inseguiva senza fanatismo alcuni avvii di sue esigenze poetiche, egli implica con il suo atteggiamento letterario una strada alla poesia dilettantesca ed ardita, innovatrice e raffinata[2], che supera le passioni rapide e focose di altri preromantici per testi e per cadenze. Aveva esordito con una applicazione di motivi younghiani all’elogio funebre di papa Clemente XIV, secondo la moda che travolgeva una poetica sorta intorno al nucleo dei Night Thoughts come esasperata rinuncia ad ogni pompa esteriore, ad ogni legame convenzionale, come liberazione di affetti tenacemente personali, lirici, di meditazioni sull’assoluto, quasi cupamente egoistiche. Il godimento di ogni sfumatura della personalità dolente, gelosamente catalogata (lo stesso racconto della morte di Narcisa è tutto risentito egoisticamente in funzione di una degustazione morbosa), era, insieme allo smarrimento «cosmico», la direzione essenziale del paesaggio interno younghiano. Ma i letterati italiani, inguaribilmente socievoli, e veramente poeti d’occasione nel senso meno goethiano della parola, si gettarono sul nuovo tema letterario, lo ridussero a schema, a modulo e a topica e se ne servirono abbondantemente come elemento particolarmente indicato in occasione di componimenti ascetici e funebri. E tra le varie notti che uscirono in quegli anni, le Notti clementine del giovane Bertola (uscirono nel 1775) non son certo le meno cortigiane, le meno inficiate da una volontà di utilizzazione retorica della nuova poesia. Anche se facilmente si può osservare che il tono lugubre di questi componimenti non è ispirato dall’avvenimento-occasione, ma da una personale sensibilità, innamorata di un certo atteggiamento poetico, ed è quindi risultato di poesia sulla letteratura, esercizio su modelli formati e creduti (col calcolo di «efficacia» di moda che è presente particolarmente nel lavoro di quegli anni letterari) di per sé capaci di poesia. E infatti Young è ormai invocato come personaggio poetico, come eroe poetico, e il paesaggio inglese delle Notti è reso a sua volta fonte autorizzata di suggestione:

e dell’anglico Ciel caliginoso

il patetico suon piangendo chiedo.[3]

Inoltre il Bertola era limitato nella sua accettazione di Young da un’incorreggibile tendenza accademica e da un colore di sensibilità che va verso il tenero e non verso l’orrido. Quella sensibilità che la Teotochi diceva «senza pari» (ma già nelle sue parole piú superficiale che potente[4]) e che lo portava dalla garbata letizia delle sue favole e delle sue poesie a quella «felice aria di confusione» pittoresca e sentimentale che egli creava nel suo Viaggio sul Reno, tra grazia candida di incisione e una riduzione minima di una pastorale beethoveniana, non lo apriva che secondariamente e letterariamente all’impeto malinconico, «orrido», che un Alfieri, un Foscolo risentiranno. Piú capace, come vedremo, di un velo di malinconia quasi lieta, di pensosità raffinata (lontana dalla edonistica uniformità di un Savioli), egli accetta l’armamentario younghiano con una certa impassibilità, in mezzo a tirate cortigianesche che precisano le intenzioni accademiche e il valore di indice di un affermarsi di moda:

Tutto m’avvolgo nell’orror del Monte

or che notte precipita giú bruna,

tu conscia del mio duol l’argentea fronte

sotto lugubre vel celasti, o Luna:

voi, Mondi erranti, e voi Soli e Comete

allo sguardo mortal piú non ridete.[5]

Dove tra l’altro si vede la tendenza ad una traduzione piuttosto sonora e il gusto del paesaggio piú che del nudo effetto di orrore. Lo stesso tema della morte che in Young è il centro lirico ossessivo delle Notti, è ridotto il piú possibile in termini di pacata fantasticheria elegante e favolosa:

Non l’estremo dei mali, e non crudele

meta, ove il duolo, ove il terror s’annida,

ma un sentiero sei tu piano e fedele,

che ad infinite meraviglie è guida...[6]

Il Bertola poi trovò un piú vasto appoggio alla sua sensibilità artistica in tutta una letteratura, quella tedesca, su cui nel 1779 pubblicò un libro (Idea della poesia alemanna), ampliato nel 1784 (Idea della bella letteratura alemanna), e che risentí poeticamente in una immagine tutta idillica di una Germania laboriosa, sentimentale, pacifica, figura ideale di un preromanticismo rousseauiano gessneriano, impreziosito in una tradizione barocca e rococò, rivista a sua volta in un’aria di secondo Settecento. Come in questo ritratto di Martin Opitz caratteristico per il moderato preromanticismo bertoliano, non ribelle, non abnorme, in cui «genio» e «gusto» sono amati uniti in un idillio primitivo ed educato: «Chi ha analizzato i primi padri della poesia di varie nazioni, e gli ha trovati per l’ordinario grandi, robusti, veementi come Omero, Dante, ecc., si darà forse a credere che Opitz fosse naturalmente di tempre cosiffatte. Ma no: egli era di un estro piú moderato; di un fuoco meno impetuoso, e piú diffuso, piú uguale. Egli avea del genio senza dubbio, ma era anche piú fornito di gusto. La poesia di Opitz non abbonda di pennellate forti, di contorni fantasticamente sontuosi: ma è rivestita quasi sempre di un colorito dolce, è finita, è economizzata: non è già un rapido torrente che inonda; è un fiume di corso regolato e tranquillo» [7]. Ritratto assai diverso da quello del secentista Opitz, ma, nella intelligente distinzione di linguaggio[8], mèta della simpatia bertoliana piú di un volto fremente e drammatico. Un moderato preromanticismo che tiene sempre a distinguere i caratteri di sensibilità, di tenera malinconia, come caratteri della nuova poesia, dagli impeti piú irregolari di cui vede solo il malgusto senza cercare di intenderne la spinta piú intima. «Senza confonder mai la malinconia che commuove coll’orrore che ributta», dice a proposito di settecenteschi come Cronegk (Die Einsamkeiten), come Creuz (Die Gräber). Il gusto dell’idillio elegiaco nutrito di meditazioni sull’infinito e sulla morte, con qualche concessione alla «grandezza» secentesca e all’improvvisazione estrosa settecentesca (donde raccoglimento di panegirici e di brani improvvisati), si riconosce nell’importantissima Idea della bella letteratura alemanna in cui Gessner campeggia con numerosissime traduzioni e con una parte intera dedicata a lui, quasi mèta piú o meno palese di tutto il cammino di quella letteratura, dai Minnesänger e dal rinascimento di Opitz. Se la dichiarazione che «l’immaginativa in istato di passione è la madre dell’entusiasmo»[9] porta Bertola in piena aura di novità (si ricordi la opposta definizione della grande enciclopedia che faceva madre dell’entusiasmo la ragione) e poi il giudizio negativo del Götz von Berlichingen, basato su di un segreto amore per le unità («troppo dato in braccio a quella libertà, che ricusando ogni sorta di confini va degenerando nel mostruoso»[10]), lo ritira nel campo delle tipiche incomprensioni italiane per le conseguenze romantiche delle premesse preromantiche, fra questi estremi il tecnico della grazia e del bello morale trova il suo esemplare in Gessner circoscrivendo sempre meglio uno dei punti tipici del gusto preromantico. «Pare a me, dopo la lettura di Gessner, che gli uomini abbiano tre volte tanto di bontà, e che il mondo si sia fatto piú bello»[11]. Non è piú l’Arcadia che può far da riferimento ad un idillio pastorale, ma Teocrito o Virgilio per una similarità di «cuore» fra antichi, primitivi e tedeschi «nazion felice, in cui il linguaggio di cuore de’ primi uomini non è forestiero!»[12]. E insieme il gusto miniaturistico del rococò si cambia in un piú aerato amore di disegno sensibile, in cui paesaggio e sentimenti muovono le ricerche preziose di una grazia tenera e sfumata che passa nella descrittiva critica del letterato preromantico: «Gessner vuol commuoverci, vuole impegnarci, e ricorre alla natura animata. Un esempio mi aiuterà a spiegarmi; ed ecco l’abbozzo di un Idillio. I nembi che offuscavan l’aria e impaurivano i mortali sono già spariti. Non serpeggian piú i lampi in lunghe strisce di fuoco nell’oscuro fondo delle nuvole. Le gregge qua e là disperse in ricovero, saltellando ritornano al sole, e scotendosi spruzzano il terreno di gocce stillanti dalle lor lane. Per finirla, aure, fiori, erbe, arboscelli ecc. tutto vien numerato ed esposto in dettaglio. Ma che? in questo rallegrarsi che fa la natura in mezzo a questi oggetti rilevati nelle lor piú recondite parti, ci comparisce dinanzi una grotta; da cui veggiamo uscire due amanti pastori, che tremano ancora de’ tuoni e de’ fulmini: si avanzano, si rassicurano: la dolce espressione che fa su di essi il cielo nuovamente sereno, il sorriso dell’iride sulle lor terre ed abitazioni, e l’amenità e la freschezza che gl’invitano alla tranquillità primiera, vanno accrescendo i tenerissimi trasporti della loro felicità. Ed ecco a un dipresso come la scena si apre e si anima appoco appoco; scena che ci occupa, ci commove e ci lascia nell’estasi del piacere per uno spettacolo della natura ricco di cosí vivi rapporti cogli esseri sensibili»[13]. Natura animata, «dettaglio» sentimentale, dolce malinconia, come termini di quell’insoddisfatto edonismo, di quella tensione nostalgica verso una placida perfezione di sublime semplicità: in questa si scioglie l’eloquenza piú grandiosa (e ammirata con una certa inquietudine) delle traduzioni da Klopstock, come si animano le varie «canzonette» che abbondano fra le traduzioni che accompagnano il saggio critico, quale presentazione finale di Gessner. Quel Gessner di cui egli volle essere il traduttore e il banditore in Italia e che, nei suoi limiti di miniatura e di sfumatura arcadica (ingannevole apparenza di rinnovato classicismo), rappresentava per lui la grazia e la sospirosità dell’idillio preromantico. In certo senso quella prosa gracile, poco ferma e pur non tumultuosa in cui nell’Elogio di Gessner il Bertola cerca di adeguare il suo sogno di sentimentale miniatura, come quella piú ricca di elementi pittorici del Viaggio sul Reno può apparire uno dei termini massimi della «arcadia preromantica» sulla via di quella sintesi media che piú decisamente operò il Pindemonte. Lí, nella prosa pittorico-sentimentale dei suoi due capolavori, il Bertola raggiunge curiosità nuove, attenzioni che il Settecento meno conobbe e che si inseriscono nel passaggio ad una poetica piú ricca e meno oraziana, anche se in lui nessun disordine, che non veda la sua mèta di consolazione serena, ha cittadinanza. «Lo stesso accoppiamento delle due arti sorelle procacciò a Gessner il conseguimento di un’altra incantatrice bellezza nelle poesie in riguardo alla espressione degli affetti. Tanta e tale la precisione e la convenienza delle parole, il suono e la collocazione di queste, che ne presentano in un baleno e gli atteggiamenti e finanche il colore proprio di ciascuna passione, e fanno sempre intendere assai piú di quello che si legge. I tratti piú fini della espressione degli affetti son rilevati con una gradazione quasi furtiva, cosí che ne sentiamo la forza senza vederne l’artifizio: siffatta gradazione non potea esser disposta e guidata che da una mano pittorica padrona di aprir quelle vie, onde nell’atto che commuovesi il cuore, si va a colpir l’intelletto e a dilettare l’immaginazione»[14]. Quasi estenuazione di un sensismo complesso e realizzazione di un accordo di sensazioni interne e pittoriche che contraddistinguono la posizione del Bertola in questa maniera preromantica: assai decisiva quando si pensi allo sforzo del sensismo verso il sentimentalismo, verso una vita del senso interno. «Quasi vi direi che le ondulazioni di non so quale corda interna mi avvisano subitamente di ciò ch’è fatto per me; mi avvisano se passeggio, se ascolto musica, se incontro vezzosi fanciulletti, se osservo il nascere e il cadere del sole»[15]. Poesia, pittura, virtú unite nella simbolica figura di Gessner e nel paesaggio della sua campagna: età dell’oro nel «vago orrore» del bosco e nella semplicità aggraziata settecentesca.

Naturalmente questa posizione è anche sulla strada del neoclassicismo (non solo per i legami e l’interdipendenza dei due momenti, il secondo dei quali è in un certo senso assestabile entro il primo piú vasto); e tra Arcadia e un neoclassicismo sorridente, non marmoreo e funereo, si pone il saggista di quella grazia che pure abbiamo visto non mancare nel suo accento nuovo come elemento vivo nella stessa sintesi cesarottiana: e qui siamo cronologicamente ben piú vicini alle Odi foscoliane. Lontano chiaramente dalla grazia di un Mengs e d’altronde di un Montesquieu, il Bertola nel suo Saggio sopra la grazia nelle lettere e nelle arti tende una fitta trama di settecentesca sensibilità sempre animata da un richiamo al sentimento come qualità particolarmente moderna: furtiva eleganza, furtivo affetto, distinzioni squisite di finezza, gentilezza, delicatezza, voluttà, lepidezza (in cui ricorrono soprattutto abbandono, negligenza, morbidezza), vaghezza («Come circoscrivere quella grazia che trae al vago! Leggiera, fresca, innocente ritiene quasi il fior piú squisito delle altre due; e forse alcuno vorrebbe dirla la grazia vera»[16]), sono i termini di questo discorso prezioso e sottile e la presenza di Anacreonte accentua la sua eredità arcadica tutta ravvivata da un gusto piú moderno, sentimentale.

Il punto di equilibrio preromantico nel Bertola, dopo le Lettere campestri, l’arricchimento culturale della Idea della bella letteratura alemanna e le prove divergenti di canzonette, di favole, e di elegie younghiane, è rappresentato dal Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni[17], in cui la prosa lieve e pur accademica, spregiudicata nella nuova guida della sensibilità e pure desiderosa di un nitore classicheggiante, rappresenta, insieme alle Prose campestri del Pindemonte, il risultato piú qualificato e notevole della prosa preromantica nel suo maggiore equilibrio. La misura tenue e breve della pagina nella sua tendenza a concludere fra grazia epigrafica e discorsività elegante, il gusto minuto di gradazioni coloristiche e di effetti sonori attutiti, indicano sufficientemente una cura attenta, letteraria, che mantiene il Bertola alla scuola dei classicheggianti pariniani, ma con una ricchezza dentro di saporosi fermenti, di memoria sensibile e nostalgica che lo muove a quel colorismo sentimentale, a cui non giunsero i settecenteschi fermi alla sintesi illuministico-sensistica. Senza spunti potentemente rivoluzionari, in una educata apprensione di ogni fermento vitale, il Bertola del Viaggio segna però in un ambito ben limitato, in un respiro corto, direzioni di poetica che mediano graduatamente il passaggio dal costume letterario settecentesco al gusto romantico di un nuovo pittoresco senza equivalenze rigidamente miniaturistiche, di curve edonistiche misurate sull’intensità sentimentale, sulla possibilità di un riferimento a motivi piú fondi e segreti, istintivi e poco calcolabili razionalmente.

«Tornai sul ponte al cader del sole. Gli sfondati de’ colli erano già scuri; ma le prominenze brillavano di viva luce, il fiume rosseggiava tutto, e i gran monti in faccia eran d’oro. In mezzo a questa gioia il palazzo già abbandonato da’ raggi dava in non so che di sublimemente tetro e patetico; mostrava nel vero, e facea sentire in que’ momenti il lutto della trista sua sorte»[18]. L’impressionismo settecentesco, amante delle rovine, qui si supera, senza urto (per assimilazione di urti precedenti e soggetto ad urti piú impegnativi, ma già comprensibili attraverso lo stesso linguaggio che si abitua a certe parole-segno[19] e a certe intonazioni), in un riferimento esplicito ad una storia sentimentale (la sorte del castello di Heidelberg), ad un senso nostalgico della memoria, senza cui le sensazioni sono avvertite come sbiadite o puramente decorative. Ed è appunto all’arte come decorazione, come ornatus che il preromantico piú moderato reagisce, attribuendo perfino alla sensibilità un tono di rinnovamento del pittoresco, quasi prima fosse fissato con fredda oggettività da un’arte non sentimentale, descrittivistica. Ché il descrittivismo anche minuto del Bertola, mentre discende nella psicologia con volontà di lucido rilievo[20] ne riporta la mossa trepidazione nel piú attento e limpido giuoco di colori e di luci di cui la prosa preromantica abbia esempio. Descrittivismo che ama sentirsi in movimento, poco cesellato, anche se minutamente rilevato, che crede di adeguare una piú intima legge di poetica sensibile e sentimentale facendo aderire una grazia di raffinata visività con un procedimento di animata mobilità: «Quali accidenti di luce! Avevamo per contro a noi una specie di mare illuminato gradatamente, ma con forza; mentre al nostro fianco destro era un panneggiamento tenebroso, mitigato qua e là dalle brillanti prominenze: sulla sponda sinistra poi, esposta al mattino, un ammasso vaporoso e ondeggiante rivestito dalla luce, indorando sottilmente le alture maggiori, dava un certo risalto al margine opposto, le cui tenui eminenze quasi trasvolavano una dietro l’altra. Secondo che ci avanzavamo, veniva a farsi su tali oggetti alcun piacevole mutamento. Or questo cosí frequente cangiarsi di colori e di forme in tutti i lati, questo scemare, questo crescere, questo scorciarsi e prostendersi degli uni e delle altre per poco che l’osservatore s’inoltri, si ritiri o si rivolga, desta in lui non so quale idea di prodigio»[21]. Descrittivismo che, del resto, proprio come descrittivismo sensibile, reagisce sul nuovo piano di poetica alla sommarietà classicistica con una giustificazione che, mentre mantiene il Bertola nella ricerca settecentesca del piacevole e limita quindi giustamente la natura equilibrata di simili sintesi letterarie, indica la via che dall’edonismo sensibile porta al sentimentalismo, alla tensione spiritualistica romantica, alla generosa eteronomia ottocentesca. Come quando si lodano gli stranieri per il loro descrittivismo pittorico che servirebbe non solo al promovimento dell’osservazione scientifica, ma piú alla indagine interna e alla «consolazione», alla scoperta di «una via della felicità e del riposo»[22]. Donde la vitalità del descrittivismo come «patetico» (si leggano le belle pagine Temporale a San Goar, lettera XIX) e come «romanzesco», che esita ormai sul discrimine equivoco rousseauiano di «romanesque» e «romantique» e che si arricchisce di un tono frizzante e di maniera tipicamente bertoliana: il «bizzarro», a cui l’ammaestrata riduzione «giardinesca» della natura[23] apporta una limitazione miniaturistica che non vorremmo certo celare per il gusto di un testo piú deciso, quando proprio il Bertola e in particolare questo Viaggio ci servono come prova della sintesi moderna in cui la letteratura preromantica italiana trova non le sue punte piú audaci, ma il suo tenue equilibrio.

E tuttavia appunto perché quest’equilibrio è nuovo e lontano dal diverso piano di equilibri chiaramente illuministici, se il metodo di conoscenza della natura distingue rozzamente anche le diverse civiltà letterarie, nel Bertola il pittoresco, pur con i suoi limiti, è tutto visto con un occhio piú fremente e dilatato, con un bisogno di esaltazione e di ingrandimento che accenna a bisogni romantici di prospettiva non puramente spaziale: «In quelle ampiezze d’inaspettato orizzonte lo spirito sente non so che di grande e di libero che lo ravviva oltremodo e lo innalza...»[24], «Un patetico che trae all’orrore, spira tra queste alture, e s’insinua profondamente nell’anima...»[25], «E l’immaginazione godea di spaziare nel vortice de’ secoli...»[26]. Questo letterato che amava «pensieri nudriti dal tremolio delle foglie»[27] (e questa estrema sensibilità supera già le capacità illuministiche), ha una minuta grafia che sente e colorisce le sue impressioni pittoriche, al di là delle esagerazioni di moda («io cui tristezza irrequieta ancide»[28]), in uno stile che si eccita di sospirosi «al di là», di sublime «raccapriccio» (anche se corretto in gusto del raccapriccio: «godevamo raccapricciando»[29]), di «bello morale» misurato sul «tumulto del cuore»: «Intanto quell’incontro, que’ rapporti inaspettati con esseri sensibili cosí cari, quel quadro morale di felicità, d’innocenza introdotto nel campo d’un quadro fisico, grande, austero, e quasi terribile ci mettevano nel cuore un tumulto, il quale, dopo alquante scosse piú gagliarde, vi lasciò entro certe ondulazioni che ne disponevano dolcemente alla tenerezza»[30]. Testo tanto piú importante in quanto delinea praticamente la nuova retorica preromantica con le sue categorie stilistiche, paesistiche: «il culto», il deserto, l’orrido, il gentile con culmine letterario nell’accostamento di «Virgilio, il Thomson, le Notti younghiane»[31] e nell’esaltazione specifica della «soave malinconia», della «cupa, ma pur dolce malinconia», che è poi l’attacco non arbitrario con la sintesi pindemontiana.

A volte, e nella maggioranza di quei casi che il Bertana raggruppò sotto il titolo Arcadia preromantica (che in realtà non è neppure piú Arcadia se non nel senso di accademico esercizio su temi e direzioni diverse), gli atteggiamenti ispirati alle traduzioni ed agli originali preromantici[32] coesistono con atteggiamenti diversissimi su di un piano di mode attinte secondo occasioni e secondo momenti di successo nel volubile mondo letterario settecentesco. Tipico esempio (come in altro senso fu il Frugoni per il periodo precedente) è il Fantoni, «Labindo», che, ad un brio e ad una inventività quantitativamente inesauribile, ma piú illustrativa che altamente espressiva, unisce l’abile apertura ad ogni aura poetica, da quella arcadica a quella sensistica, a quella preromantica, in un incontro di eloquenza musicale e di classicismo esteriore. Certo l’interesse primo del Fantoni è quello metrico (e lo indicò alla simpatia del Carducci) che veniva a coincidere, come in altri oraziani, con l’amore di un equilibrio umano non profondo, e con quel moralismo educativo che, unito ad un epicureismo elegante, rimase vivo in tanta produzione «repubblicana» della Cisalpina. Senza il gusto di un Savioli, il Fantoni ha una tendenza genericamente classicista, accompagnata dalla coscienza della sua ricerca tecnica[33]. Dato questo suo interesse, anche le sue notti younghiane e i suoi idilli gessneriani, in mezzo alle sue Odi, Sciolti, ecc., hanno il valore di esercizi e di omaggio ad una moda di società volta ad una propria conquista tecnicistica.

Tale osservazione dimostra come l’assimilazione della nuova poetica avvenga spesso su di una direzione puramente tecnicistica che la facilita con la sua indiscriminata curiosità e volontà di esperienza, e mentre proprio in ciò va riconosciuto il pericolo tipicamente italiano di ridurre una rivoluzione poetica in una rapida formula letteraria, in pretesto di maniera, deve essere anche sottolineata la possibilità offerta a nuovi motivi di vivere in quell’unica sede valevole di tecnica letteraria dove essi potevano agire, stimolare una lingua sia pure compromessa che sarebbe stata precedente di autorizzazioni piú originali e piú potenti. Accettato da questi retori in quanto tecnici della poesia, il nuovo mondo poetico, mentre vi perde la sua nativa forza, si guadagna un posto riconosciuto, per cui potrà apparire non estraneo, non arbitrario.

Le Notti (pubblicate tutte nel 1792, mentre solo la prima compariva nell’edizione del 1785 insieme a dodici idilli), con la premessa virgiliana «sic fatur lacrimans», sono soprattutto uno stimolo, come titolo e suggestione generale, a lamentazioni lugubri, a riflessioni di tradizione barocca, a riflessioni sulla caducità e sull’eternità. Il soggetto insolito rende in genere meno sicuro Labindo che si destreggia in sapienti sestine tra il desiderio di introdurre le sue trovate piú eleganti e la volontà di impressioni di orrore, di tono grave e tetro

(Gli occhi son scarni e livido marciume

copre la bocca di gementi spume),[34]

che cade molto spesso nel ridicolo e nel discorsivo o nella cantata piú facile e teatrale:

La maligna soglia

varcherò della fossa tenebrosa,

e, brancolando, cercherò la spoglia

gelida e cara, ove tu l’abbia ascosa.

Ma, oh Dio, qual voce! qual fragore orrendo!...

Santa amistà, tu mi proteggi... io scendo...[35]

Pure in questo tradimento letterario i luoghi comuni preromantici si affacciano tranquillamente, la «pietosa luna» è sempre pronta a risplendere sugli avelli, sulle «chete eterne notti», e parole e concetti che il Settecento aveva ignorato entrano insieme a pezzi di materiale poetico che avrebbero scandalizzato una linda accademia arcadico-illuministica e guidano ora quelle decorose sestine che prima avrebbero cantato gli amori dei pastori o le scoperte di un fisico illustre. In morte di un bastardo, Per un aborto sono i titoli di componimenti fantoniani in cui sofistiche trovate, irruzione di motivi realistici e macabri riescono a fondersi in una discorsività eloquente e sonante.

Curva l’eternità sugl’indecisi

secoli...[36]

Ecco espressioni che, impastate nella retorica tradizionale e volte soprattutto a valore metrico, dimostrano che, se il Fantoni è piú sincero poeticamente in un’ode a Fidile, storicamente il suo sforzo nuovo indica dove urgeva lo spirito letterario del tempo e come la media retorica vi si adeguava. Negli Idilli (per quanto il Fantoni nella dedica al cav. Sproni dica: «era tempo che i poeti d’Italia, divenuta non so per qual fatale decadenza serva delle nazioni, cessassero di tradurre Idilli di Gessner e ardissero di inventare su l’antiche tracce di Bione e di Mosco») è evidente l’influsso gessneriano anche se a parole, con un moto comune al neoclassicismo, questo influsso sia escluso a favore di una piú intima vicinanza ai classici. Cosí nell’idillio terzo, La solitudine, vi è una accentuazione di natura preromantica esplicita e non autorizzata davvero dal nitore classico, che del resto nel Fantoni non assunse mai il valore assoluto di guida alla perfezione che ebbe nel neoclassicismo di stretta osservanza e nei piccoli neoclassici savioliani.

Tacente solitudine profonda,

all’ombre amica, della valle sacra

al temuto silenzio e al mio dolore

regnatrice tranquilla, or che piú ardenti

vibra i raggi dal ciel l’estivo sole

mi assido sopra quest’ignuda rupe,

a cui veggo le fosche errar d’intorno

immagini di morte e di spavento.

Rivo, che rompi la canuta spuma,

nell’orror della grotta accheta il fiotto;

e voi, riscosse dal lottar dei venti,

sospendete il sussurro, amiche frondi;

dal limaccioso sen della palude

non gracidi la rana, e su quell’alta

quercia non gracchi il negro stuol dei corvi.[37]

Modulo di paesaggio sentimentale e di linguaggio fosco pittoresco che nella fastidiosa prolissità di Labindo si associa, in questo come in altri idilli pastorali lugubri, ad un elemento narrativo drammatico che prelude grossolanamente alle forme della novella romantica in versi, di cui arieggia la facilità abbondante e sonora (la cadenza cesarottiana abbassata verso una resa quasi piú popolare in un voluto virgilianesimo che gli sembrò offrire la via piú comoda per un classicismo aperto a sensibilità piú larga e sentimentale). Naturalmente anche là dove come nei Fuochi fatui molti elementi collaborano ad una linea preromantica ben chiara (l’orrore dell’argomento e soprattutto il paesaggio), il finale gusto della trovata elegante, l’amore dell’effetto e il sorridente descrittivismo di scarso impegno personale mantengono Labindo in questo limbo letterario, in cui la spinta di una moda porta ad una collaborazione, a un compromesso di piú maniere senza riuscire ad una espressione che richiedeva un impeto inizialmente piú che letterario. Atteggiamento eclettico e compromesso che permette spesso l’isolamento di un documento preromantico entro una produzione di eredità arcadica o sensistica in una epoca in cui il senso della unità interna e dello sforzo romantico alla coerenza personale piú fanatica è proprio ciò che piú manca. Sicché, in un’attività di favolista innamorato di Pope e di Parini, Lorenzo Pignotti può presentare un poemetto, La tomba di Shakespear[38] (sic), di intonazione francamente nuova e valevole per una indicazione della forza di azione della maniera preromantica in Italia. Anzitutto la sua presentazione di Shakespeare come grande poeta (poco dopo la difesa del Baretti) ha già il valore dell’affermazione di un nuovo canone, di proposta di nuovi modelli valevoli per tutto il romanticismo e accentuanti, pur in questo gusto composito, il motivo di una libera fantasia, di una istintiva forza creatrice che pone in crisi il concetto illuministico e classicistico della poesia come buon gusto reso tale dall’ordine sapiente della ragione che in fine limita e costruisce anche il «non so che» rococò. Il Pignotti, che non fece ragionamenti sulla poesia come un Bettinelli, ne azzardò un presentimento nuovo in una rappresentazione poetica che nel taglio stesso del poemetto lega l’omaggio al poeta «sublime», sentito tale anche nella sua sorte umana (queste «tombe» sono del resto componimenti divenuti preromantici con linee piú fluide ed emotive che non parinianamente incisive), ad una costruzione a quadri poco rilevati, pervasi da una volontà di emozione, di atmosfera poetica creata con la suggestione di passi shakespeariani risentiti con una simpatia e una sicurezza non facilmente rilevabili in zona illuministica. Dopo la trasfigurazione della Tragedia in una Melpomene viva ormai nella nuova convenzione di orrore

(il ferro intriso

d’atro sangue stringea, copria la faccia

trasfigurata un livido pallore,

e disperate lacrime versava

da i torbidi e sanguigni occhi, ove pinta

era la smania, e il nero orror di morte),[39]

in uno sfondo di uniforme grigiore e ridotte a quadri pittoresco-sentimentali, si staccano le scene culminanti di Otello, Amleto, Tempesta, Sogno di una notte di mezza estate: e collaborano nel loro genuino stimolo di drammaticità a piú direzioni, con echi ossianeschi, younghiani, creando nella sostenutezza pariniana dell’endecasillabo un’ammorbidita musica di toni sensibili e fantastici che prelude, senza alti pregi personali, a quell’impasto di sapienza classicistica a base sensistica e di nuovi impeti lirici, che trionferà in tanti romantici italiani. Sensibilità che porta nel tessuto classicistico colori che piú tardi l’impetuosa guida romantica farà straripare nei suoi esempi estremi o condurrà a farsi centro della costruzione stessa nei piú sostanziosi risultati.

L’ombra disparve, e nuove a me davante

muovono alate portentose forme,

che scevre d’atto e di sembianza umana,

intrecciando fra lor rapidi voli,

le vane membra di leggiera e vota

aura formate, e le tessute penne

della lieve sostanza, onde colora

Iride il curvo rugiadoso grembo,

scuotono a me con spessi giri intorno...

O fantastiche forme, e chi vi trasse

da i cheti campi, che la pigra e bruna

ombra di Lete bagna, e dagli oscuri

muti regni del nulla, e del silenzio?

Voi, che del dí fuggendo il chiaro lume,

sol vi destate allorché il grave suono

da lungi udite della stanca squilla,

che sembra il giorno pianger, che si muore,

e che del nero bosco entro gli orrori,

fra il tremulo chiaror d’incerta luna,

al villan pauroso vi mostrate,

che vi guidò su queste amene sponde?[40]

Sotto il peso di un materiale poetico nuovo, di un nuovo costume sentimentale, di nuovi luoghi comuni che impegnano la immaginazione dei letterati con un senso di suggestione che supera la loro logica traducibilità, lo stile accogliente e pur sostenuto dalla disciplina oraziana-pariniana mossa da un’intima spinta al neoclassicismo si apre a modi, parole, intenerimenti di colore e di cadenza che si sforzano di adeguarsi ad una nuova poetica, appoggiata su di una immagine nuova della natura, sul nuovo principio di una creatività naturale, assunta a fonte incontrollata di poesia e analogia grandiosa del libero sentimento. Che è poi precisato dal Pignotti nel suo poemetto come contrasto fra la natura addomesticata dall’arte e la «Natura» tout court:

Arte infelice

quando a Natura contrastare ardisce,

e imprigionarla tenta, e farla serva![41]

È il contrasto comune ai letterati preromantici fra il giardino alla francese e quello all’inglese che qui è portato alla pienezza del suo significato estetico e che, al di là delle intenzioni dello stesso Pignotti[42], viene a simboleggiare la sconfitta del gusto razionalistico e il primato sulla simmetria e la precisione ordinata dell’ispirazione, della fantasia, del sentimento di cui la Natura selvaggia e libera è evidentemente qui simbolo, come è implicita affermazione di un nuovo senso della vecchia formula della imitazione della natura in una interiorizzazione dell’opera creativa nella personalità creatrice:

Volgiti adesso al monte e di Natura

l’opre contempla. Vedi l’erta cima,

che tra le nubi perdesi! Torreggiano

spaventosi dirupi, informi massi,

che arruotati dagli anni, ruinosi

pendono, e all’occhio pingono un sublime

spettacol rozzamente maestoso...

... In rozze sí, ma ricche, e maestose

spoglie dispiega la sublime faccia,

e le maschie bellezze, e il vero e il grande

spettacol che sorprende e occupa i sensi

la natura anche incolta, e sí trionfa

dell’arte, che imitarla invan si sforza,

e indarno il debol suo vigor con vani

ingegnosi ornamenti, e lo studiato

ordine e simmetria nasconder tenta,

[...]

Dunque invan contro te, Spirto felice,

il maligno furor de’ bassi ingegni

latrando va, che a te sicura e salda

la gran donna approntò nobil difesa...[43]

Che in termini diversi arieggia il grido di ammirazione goethiana per la naturalezza shakespeariana. Come, nella lettera di prefazione alla Tomba, con linguaggio coerente il Pignotti precisa indirizzandosi alla Montagu: «Ella (la Natura) vi ha risposto collo stesso semplice, ma sublime linguaggio, col quale è usata di parlare ai gran poeti, e non già con quello che nel silenzio delle passioni hanno immaginato a loro senno i freddi legislatori del buon gusto»[44]. Poiché «si può errar nei ragionamenti, ma non già nella sensibilità», dato che essa deriva direttamente dalla natura. Donde il sovvertimento delle regole basate sul raziocinio: «Da gran tempo la piú sana parte delle persone di gusto s’è accorta che moltissime regole stabilite dai critici son false, giacché si trovano smentite dalla natura»[45].

Dove i fermenti preromantici sono meno potenti nel loro riferimento, diciamo cosí, cesarottiano e nella loro rivelazione di chiari concetti di liberazione dalla sintesi classicista-illuministica, e sfumature arcadiche, incisioni classicheggianti, abbandoni preromantici si mescolano e si scambiano giustificazione (vi sono sottolineature arcadiche, preziosi languori classicisti, sostenutezze in cadenze preromantiche), l’esame preciso sui limiti di climi diversi diventa difficile e rischia di farsi arbitrario nel fanatismo di una adesione perfetta, di una colorazione di motivi che del resto perde di importanza di fronte all’esigenza fondamentale di accertare una zona di predominante cultura letteraria, e le tendenze di una maniera e ancor piú gli arricchimenti di una elaborazione di poetica che naturalmente presuppone varie e a lor modo definitive sintesi personali, non meccanicamente convinte della loro generale provvisorietà. Da una parte molte di queste esperienze poetiche appaiono come arricchimenti del clima settecentesco senz’altro, dall’altra si rivelano come momenti di una chiarificazione nel linguaggio, nella poetica verso una civiltà ben determinabile pur nel senso fluido di «rivoluzione permanente» che è proprio della storia letteraria come di ogni storia umana. E se è piú facile distinguere un gruppo di pariniani e savioliani che indicano la volontà di una nuova incisività a base neoclassica, mondi poetici come quello del Vittorelli o del Mazza o del Pompei, pur con il loro limite di eredità arcadica, hanno diritto di suggerire qualcosa a chi non si preoccupi di cercare solo nei poeti degli almanacchi settecenteschi gli ignoti annunciatori della tempesta romantica. «Arcadia lugubre e preromantica» non basta come indicazione di temi contenutistici e nella «decadenza» dell’Arcadia nel suo rinforzo classicheggiante e sensista, al di là dei limiti pariniani, si devono registrare le scosse, gli errori indicativi, il suppurare in un’area grigia settecentesca di piaghe, di ombre, in cui il linguaggio si muove magari goffo o estenuato oltre la perfezione tipica di una civiltà poetica, verso nuove prestazioni e verso nuove cadenze.

Se il Vittorelli può costituire lo specchio immobile di un gusto di ultima Arcadia in una strana continuità oltre il tempo (fino alla morte nel 1835), sí che il Bertana poteva affermare che nelle Anacreontiche era espressa la maniera arcadica «piú che non anticipati – sia pure inconsciamente – i gusti melanconici del romanticismo sospiroso»[46], e il biografo romantico, il Carrer, poteva dire che «visse e morí poeta di Irene e di Dori» (e che, a differenza di Monti, Foscolo e Pindemonte, «i quali tenendosi pure qual piú qual meno abbracciati alle vecchie dottrine, non mancarono di piegarle o contemplarle alle tendenze dell’età propria», rimase fedele alla «scuola che adesso è scomparsa»[47]), egli non solo presenta esempi di una fantasia male inquadrabile nell’evidente serenità arcadica, esempi di un leggero movimento fantomatico fra raffinato e belliano (come la quartina sull’ombra di Catullo o il sonetto ad un parroco), ma la stessa facilità e la sospirosità non piú metastasiana che le piú riuscite anacreontiche hanno pur nella loro limpidezza alla Guardi, capace di risolvere piú agevolmente che non la pariniana sostenutezza movimenti come quelli notati, indica proprio due direttive: quella popolare, ereditata poi da quella specie di impressionismo che vive nell’approssimazione romantica, e quella di estenuata raffinatezza che pur non manca nei ritmi piú gracili proprio di un Carrer e perfino di certo Berchet. Tanti sono i sottili legami che al di là del muro convenzionale infittiscono la trama preromantica e mettono in rilievo l’affiorare di una sensibilità, il precisarsi di direzioni stilistiche entro schemi antiquati o viceversa in tentativi inadeguati di moda intimamente non condivisa. Come un Robert porta i suoi temi preromantici entro la nitida coscienza di uno Chardin e quasi entro la ripresa neoclassica poussiniana e come il moralismo realistico di un Hogarth si risolve in preannunci stilistici che superano il Settecento, allo stesso modo e con la stessa approssimazione, nella storia letteraria si producono, in clima stilistico ancora arcadico-sensistico, spinte verso il sentimentalismo romantico e docili sensibilità edonistiche si creano alibi preziosi di linee piú mosse, meno razionalistiche, di tinte cupe, di impeti violenti.

Entro le raccolte dei poeti del secondo Settecento, accanto agli spunti neoclassici precedenti alla volgarizzata chiarificazione winckelmanniana, i segni della moda, del gusto preromantico, si moltiplicano con tipiche elisioni di atteggiamenti diversi in un dilettantismo molto settecentesco ed entro i limiti che solo alcuni estremisti, a modo loro, e concretamente l’Alfieri, romperanno.

È quindi con questo particolare senso di un movimento non chiaro e piú velleitario che volontario che vari testi del secondo Settecento portano il loro contributo parziale, e spesso contraddittorio, al disegno di un’epoca letteraria in formazione e pure conclusa entro un limite di impegno poco fiducioso e poco rivoluzionario: come spunti e movimenti contraddittori si studiano nel periodo del secondo Ottocento prima dell’affermarsi della poesia simbolista. Si prenda Angelo Mazza, il famoso «cantor di Armonia» (G. Rosini), e nel suo strano platonismo sensistico, nei suoi temi di poesia non piú puramente scientifica si avvertirà anzitutto un atteggiamento di meditazione complessa, non riducibile all’illuministica descrizione di congegni anche mentali, che nel neoclassicismo chiaramente indicato dalle poesie sull’Armonia (che possono persino far pensare alla loro presenza nelle Grazie foscoliane) porta già un preventivo arricchimento di linee mosse, di eccitazione sentimentale, e, utilizzando l’insegnamento cesarottiano (si vedano le Stanze al Cesarotti), lo riprende in un linguaggio desideroso di moti poco tradizionali e quasi di colori torbidi («l’acquidoso salice»[48]), unendolo a quello anche piú decisivo per una simile posizione di poesia integrale (e la radicale unità pensiero-poesia nella mediazione del sentimento sarà uno dei canoni della poetica romantica) degli inglesi preromantici da Thomson a Parnell, a Thomas Gray, nel loro incontro di motivi religiosi, meditativi, paesistici. Accanto alla sonorità di molta poesia d’occasione quasi montiana e a certe acute punte di sensibilità entro l’incisività neoclassica, caratteristiche anch’esse per l’arricchimento di una poesia non marmorea e d’altronde non piú sfumata nel senso arcadico

(Anche l’erbette ardeano

sotto il gradito peso,

quando nel seno a Venere

Adon giacea disteso:

o s’ella a nuoto il facile

corpo traea, di sotto

lambia le mamme e ’l florido

grembo gemendo il fiotto),[49]

la larghezza di meditazione sentimentale, rinforzata da fermenti religiosi cosí scarsi nella poesia settecentesca italiana, si rende capace di accogliere non pedissequamente i motivi congeniali di quelle poesie lugubri e sentimentali:

Qui da un tasso funebre, onde zampilla

de gli estinti a le case atra rugiada,

odo gridar: bronzi, tacete il rauco

che fende il lago, funeral rimbombo;

mezzanotte varcò...

Vista di monumenti, a’ guai le sponde

squallor di stagnante acqua accerchia e lambe.

Questa, che morte in suon lugubre onora,

d’umido musco e d’ellera tenace

avviticchiata torre, a cui di costa

percuoton raggi lividi di luna...[50]

(Canto notturno da Parnell)

Cosí che nella piú accesa letizia neoclassica queste distese cadenze indicano il piú largo interesse preromantico anche in poeti che uno studio sulla formazione della corrente neoclassica dovrà sistemare. Ed ecco poeti tutti volti ancora all’idillio arcadico, classicheggianti per un rinnovato amore di dignità plutarchiana e per simpatia pariniana, che come il Pompei, il Paradisi, il Cerretti, portano adesioni alla materia poetica nuova piú che altro sul filo già indicato dal Parini dell’orrore piacevole o precisato in senso salottiero dall’abate Richeri nei noti versi

(Ha sue bellezze ancora

orribil rupe incolta,

la valle piú sepolta

ha le sue grazie ancor...

Cosí profondo, opaco

orror m’ispira al core,

ma quel medesimo orrore

diventa un bel piacer),[51]

e limitano la loro novità ad una accettazione sporadica, ad uso di fregio decorativo, di ammorbidimenti languidi funzionali ad intenti diversi, ma ad ogni modo interessanti perché la presenza di cadenze preromantiche è ormai automatica là dove affiorano certi temi che non si osano piú risolvere in linee di pura grazia miniaturistica. Distinzione che occorre tener ben presente nello studio di questa epoca: che cioè non solo l’incontro di fondi lucidi, edonistici e atteggiamenti dolenti del tutto gratuiti è tipico nella sua goffaggine del malgusto del tempo, ma che si opera piú spesso, contrariamente a quanto avverrà nel pieno romanticismo o già dove la nuova poetica nasce su adeguate condizioni spirituali, una separazione di temi e di stile, una mancanza di unità che si può ugualmente trovare nel secondo Ottocento quando affiorano temi «maledetti» e approssimazioni baudelairiane e temi storici con decorazione carducciana. Nel mutamento improvviso di tanti arcadi fattisi da briosi lamentosi ed afflitti, come certi rinascimentali alla ondata della controriforma, c’è chi sapientemente si riserva momenti di maggiore sincerità o, al di là del fregio momentaneo, si costruisce addirittura un recinto ove i nuovi tentativi possono essere perseguiti indisturbati. Come nel Cerretti che, bene indirizzato verso il neoclassicismo (anche se come altri della sua generazione ci parla piuttosto di un classicismo piú prosastico, meno incisivo e meno giustificato al di là della tradizione e di una simpatia), possiede delle piccolissime novelle in versi, degli «atti minimi» in cui la sua attenzione nitida alla vita della passione amorosa escogita temi da novella popolare in limiti di grazia settecentesca, ma giunge nel caso della Disperazione o di Bice e Leandro, e cioè di un soggetto qualificato, ad un intonato ritmo preromantico.

Mentre influssi piú indigeni, varaniani, cooperano con le traduzioni ad impasti piú coerenti nella generale intonazione (anche se esteticamente poco raggiunta) tetra, elegiaca come nelle note Elegie in morte della moglie di Salomone Fiorentino:

Ahi sposa! ahi sposa! un vol d’ombra fugace

fu il breve trapassar de’ tuoi verdi anni

e un vol fu la mia gioia e la mia pace!

...Qual resta il fior, se una nemica aurora

trattien sul grembo l’umida rugiada,

che il curvo stelo e l’arse foglie irrora,

tale io restai, poiché l’adunca spada

di Morte a me ti tolse, e lunge spinse

te per ignota interminabil strada...[52]

La tradizione petrarchesca non basta a spiegare un tono che la combinazione cesarottiana-varaniana farà risentire nell’originale cadenza del Leopardi elegiaco e d’altra parte la sua presenza come alta letteratura toglie a questo notevole testo preromantico l’asprezza e il vantaggio di un entusiasmo che sconvolge il linguaggio e l’avvia a nuove soluzioni. Non tanto però che movimenti guidati da una ricerca di suono cadenzato e smorzato vengano portati in luce, in direzione di una curva psicologica, di una eco di sonorità non piú secca e clavicembalistica come nella poesia rococò, di una enfasi interna che tende ogni serenità romantica:

Misero cor torna al letargo, e i tuoi

tumultuosi affetti oblia, confondi,

poiché, desto, il dolore e i colpi suoi

troppo avventa atrocissimi e profondi.[53]

Enfasi interna che sa muovere immagini e portarle a valori suggestivi che il Settecento aveva bruciato nella sua musicalità piú breve e controllata, nei suoi ritmi incisivi e senza alone:

e se la bruna madre dei riposi...[54]

Mentre l’enfasi tornava a dominare nell’eloquenza poetica del Monti in una soluzione sostanzialmente unica di magnificenza classicista accanto al trionfo del romanticismo neoclassico, sulla fine del Settecento quelli che meglio precisano l’ampiezza e la complessità della crisi preromantica sono gli indizi che non trovano la rapida sistemazione dello splendore montiano.

Del gusto preromantico diffuso tra l’80 e il ’90 con la forza di una moda cui molti aderivano (e magari insieme aderivano al precisarsi della linea neoclassica) con una vaga comprensione delle ragioni che quel gusto tendevano o solo per una pronta assimilazione letteraria con l’adattabilità della scuola frugoniana, possono esserci prova le numerose raccolte poetiche di quegli anni, piene di idilli alla Gessner, di poesie lugubri alla Young o alla Hervey, manipolate spesso in un abile linguaggio composto con prestiti pariniani, frugoniani, e perfino metastasiani, agevolate da un’impostazione di deteriore «occasione» (per nozze, per monacazione) che permetteva esercizi diversi e senza impegno. Cosí, prendendo un volumetto di Applausi poetici per le ben augurate nozze della nobil donzella la signora Camilla Parensi col N.H. il signor Raffaele Mansi, patrizi lucchesi (Lucca 1792), oltre un sonetto del Cesarotti e una poesia del Pindemonte (La notte, delicata variazione di paesaggio preromantico di un tema epitalamico tradizionale), vi si può leggere, come esempio limite, un «componimento malinconico» del conte Antonio Cerati, tra i pastori Filandro Cretense, autore di un poemetto sepolcrale, La morte, e viceversa di satire al languore preromantico, Magreide e Ipocondria. È evidente il piacere stravagante di colpire l’immaginazione con una totale discordanza fra soggetto e maniera poetica:

In tanto lutto, in dolor tanto

cerco invan liete idee, carmi d’amore,

stillano gli occhi affettuoso pianto,

palpita e langue intenerito il core,

né vuole l’agitata fantasia

che color foschi di malinconia.

Ma il carattere eccentrico del componimento non toglie che esso sia indice della diffusione e del deterioramento di una maniera che si staccava dal suo riferimento piú serio e diveniva ornamentazione facile, senza impegno, proprio contro l’esigenza da cui era sorta la crisi preromantica. Contro una semplice utilizzazione ornamentale dei motivi preromantici, della poetica sentimentale, del «vedutismo» appassionato e drammatico, sono invece alcuni «estremisti» che affermano la nuova sensibilità nei suoi quadri estremi di orrore, di esasperata resa psicologica, di enfasi di immagini per eccitazione sentimentale. Mentre poeti piú controllati e moderati portano le loro nuove esperienze sul piano tecnicistico o le mediano come il Bertola in uno stile teneramente composito di idillio sensibile e mosso che poi piú originalmente resiste nel preromanticismo italiano, altri scrittori si presentano fieri di un contenuto considerato di per se stesso poetico perché emotivo e contrastante con la rigida perfezione di una forma raggiunta da una senile e ragionevole civiltà. Si rivoltano contro il «bello» classicheggiante, contro il «buon gusto» settecentesco (e vi è implicita una brutale riduzione del possibile svolgimento neoclassico), spezzano il legame tanto sapientemente creato fra «bello» e «sublime», per sublime intendono la fonte di una emozione improvvisa e psicologica, opposta ad ogni pacata contemplazione o trasfigurazione, riferendolo unicamente a spettacoli di orrore, di macabra suggestione. E come il Settecento arcadico e illuministico è un’esaltazione spesso anche ingenua della vita nei suoi termini di civiltà socievole e di sostanziale edonismo pur se operoso, i preromantici piú audaci esprimono un loro rozzo e scomposto inno alla morte ed agli stati che ne rappresentano la presenza fra gli uomini: orrore, melanconia tetra, angoscia, per dirla con Wiechert, Lauer, Gefahr und Tod! Sempre piú chiaramente e polemicamente contrappongono alla tecnica lineare dell’Arcadia e del sensismo illuministico, in forme incerte e sinteticamente tradizionali, una rozza retorica del sentimento libero ed esuberante, un procedimento ad onda impetuosa, per accrescimento di impeto e di allucinanti entità eccitanti con la loro nuda presenza. Rappresentano in un certo senso la sbavatura spumosa di quella prima ondata preromantica che era riuscita in parte a riempire e a muovere la gustosa grazia e la incisività settecentesca e sono essi che preludono (garanzia per eccesso di una crisi non risolta) al contenutismo di tanto romanticismo estremo: Guerrazzi, Tedaldi-Fores, tanto per intendersi. Una specie di poetica del «brutto», non in tutto cosciente dei suoi possibili sviluppi e ferma in una posizione ingenua, stimola questi letterati a due direttive fondamentali: descrittivismo drammatico di paesaggi e drammaticità di scomposte psicologie che confluiscono in un’unica volontà di dinamismo eccitato e convulso.

Sono a volte dei piccoli letterati poco individuati che ci lasciano non piú che momentanei sfoghi sentimentali o esasperati tentativi di uscire dalla loro mediocrità stilistica sulla scorta della piú accesa imitazione younghiana e ossianesca (tutte le varie Narcisse, tutti i Toast funebri a Werther, a Gessner, a Young), sulla via di una specie di teorizzazione sempre settecentesca del «bello sepolcrale» (vedi ad es. il poemetto omonimo del Rubbi), di una composizione di nuovi elenchi di «bellezze» come il Museo della morte di Ubertino Landi, in cui la indicazione della incisione delle Notti tourneuriane può trovare una risoluzione notevole come impasto di tenebre e luce: che è poi il problema che piú assilla la sensibilità di questi scrittori, insieme a quello paesistico di contaminazione drammatica della distensione idillica con il movimento esplosivo della «natura»:

Giro intorno lo sguardo;

quant’io rimiro, tutto

spira e terrore e lutto

pallido lume e tardo,

che balena da lunge,

non toglie no, ma aggiunge,

non scema ivi, ma accresce

a l’ombre il fosco, ed esce

da quel tetro fulgore

piú che conforto, orrore.[55]

Ma vi sono anche dei testi piú continui e piú motivati pur se nei limiti di una eccitazione non sostenuta, come nei preromantici inglesi o tedeschi, da un coerente misticismo naturalistico, da un irrazionalismo non solamente polemico. Vi sono degli estremisti che superano l’aura media preromantica e rimangono meno realizzati poeticamente, ma storicamente indicano la massima curva della crisi settecentesca e nella loro lingua compromessa, ma sempre piú audace, autorizzano soluzioni che i romantici dovranno almeno dibattere nelle loro nuove sintesi.

Luoghi comuni, immagini, effetti fonici soffocati e suggestivi di meditati abbandoni, che trovano un centro piú genuino, meno placidamente letterario, in quello che si può chiamare il poète maudit dell’epoca, Ambrogio Viale, celebre con l’indicativo nome di «Solitario delle Alpi». Di fronte ai poeti passati per altre esperienze e pronti a sempre nuove avventure, egli nacque alla vita poetica, verso il 1790, con un gusto che in lui era un intimo furore di vita, un bisogno di espressione sentimentale senza residui, che coincideva con il suo atteggiamento pratico in quella fusione e in quello scambio vita-poesia che sempre piú si accentua nel pieno romanticismo. Già il nome di «Solitario delle Alpi» infrange la tradizione arcadica di nomi pastorali classicheggianti, incide sulla personalizzazione della poesia, sull’individuo poetico non piú puro artifex partecipe di una elegante corporazione, supera come impresa la grazia di un Ripano Eupilino in una volontà di naturalezza, di selvaggia istintività, di sensibilità malinconica che deriva direttamente da una coscienza di anima naturaliter romantica e non rimane, come nella maggioranza dei preromantici italiani, motivo letterario di una tensione finalmente superficiale e piacevole.

Poeta maledetto che romanticamente nel suo zingaresco estremismo insiste sulla poeticità egoistica di un semplice sfogo personale, sulla poetica dell’ispirato e dell’infelice come unica capacità di espressione lirica, e punta non su di una trasfigurazione formale, ma sull’immediato effetto di una espansione contenutistica, grezzamente psicologica: anche se ciò non può non avvenire entro i larghi termini del linguaggio contemporaneo.

Io d’arte ne’ miei canti orbo, e di cure

vago con inegual volo trarotto,

come rondine suol per la pianura,

e dal focoso immaginar condotto

ne seguito tenton l’impeto tanto

da soverchio fervor spesso mal dotto...

Indi a suon tetro le ferrate corde

ognor n’attempro e spettri canto, e tombe

d’ossa ricolme, e d’atra tabe lorde;

perché mai non avvien, che alto o non rombe

d’empia sorte il flagel sulla mia testa,

o a percotermi rapido non piombe.[56]

Come si può sentire in questi «omaggi» al deserto e alla solitudine (miti essenziali della sua fantasia):

Qui d’irte balze, e solitari tufi

fra il tetro orrore, e il lamentar funesto

de’ pellicani, e lungo-urlanti gufi,

io, che del Mondo i lusinghieri incanti,

i fantasmi leggiadri odio, e detesto,

a voi l’arpa consacro, e i tristi canti

[...]

che dall’una gemendo all’altra aurora

sfogar liberamente almen potrei

il dolor che mi strazia, e mi divora...[57]

Versi sconnessi, lessico trascurato e zoppicante, immagini appena abbozzate («come rondine suol per la pianura») che qualificano la sciatta fantasia del Viale, ma che mostrano la rozza urgenza di un impegno personale nel tipico vittimismo romantico: sí che queste prove hanno un valore storico ben superiore alle facili odi di Labindo o alle canzoni del Cerretti. L’urlo sentimentale supera qui per pratico vigore il carattere puramente letterario delle imitazioni e sembra spingersi oltre il cerchio preromantico ad espressioni che i romantici 1816 trovaron pure esagerate e riprovevoli, ma che indubbiamente facilitarono per eccesso i loro tentativi di poesia popolare e sentimentale, in cui, malgrado la loro protesta di distinzione fra poesia lugubre e poesia romantica, i toni della rivolta al decoro e all’ottimismo settecentesco abbondantemente fluirono.

Leva il Nulla la fronte scolorita,

e sogguardando torbido sparuto

sull’orlo sta di sua cava romita,

e con la man lugubremente muto,

dell’ossa mie, che dal suo grembo usciro

chiede accennando l’ultimo tributo...

... abborro il sol...

Ombre cave de’ morti...

Ombre de’ morti i concavi occhi in giro

tinte di cerchio di color di piombo...[58]

Qui ossianismo, younghismo sono ripresi nel loro carattere di immaginosità esaltata da un sentimento di tetra certezza e le espressioni piú decise ed audaci tornano ben oltre la mediocrità della moda piú comune. A parte l’ossianesco «ombre cave dei morti» riportato tale e quale dalla versione cesarottiana, si noti quella «fronte scolorita del Nulla», l’audacia irrisolta del «cerchio di color di piombo», il giro sonoro soffocato da un gusto di pesanti cupi clangori, tutta la linea musica-immagine-sentimento riuscita in un senso di suggestione psicologica nei versi 3-4. Indice di direzioni che non completamente realizzò il romanticismo italiano e che rimasero come stimoli e solchi in una lingua poetica, in una tradizione letteraria che la traccia potente di un Alfieri aveva scavato in profondo e che il lavorio preromantico aveva preparato alla produzione ottocentesca. E spesso la volontà di un rinnovamento fantastico porta il Viale a forme di poemetti romantici come la «visione» Erminda in cui una maggiore coscienza polemica basterebbe a dare l’apparenza di un prodotto di piú chiara origine romantica. Del resto è proprio il vigore di rinnovamento contenutistico, bisognoso di «vero» sentimentale, di «brutto» spasmodico nella sua spontaneità, che distingue questa fase interessantissima di piccolo Sturm und Drang italiano e dà a questo estremismo, a suo modo «infantile», il valore di un rilievo brutale di una deficienza dell’«ars» nel suo equilibrio arido e mortificante. L’avventura, iniziata nel clima lunare di prammatica e con un’apparizione fantomatica di fanciulla morta che magicamente scopre al suo amante un paesaggio di dolce meraviglia, si intensifica in una ricerca di toni poco narrativi, di colore pittoresco sentimentale con vibrazioni di allibimento magico che trovano il loro culmine nel rapido trapasso, mercé un gesto di magia sottolineata psicologicamente («corse un pugno di polvere e risorta / in aria la vibrò con slancio ardente»[59]), del paesaggio da sereno a tempestoso.

E fessi l’aria nebulosa e smorta,

e squallida la Luna annerir parve,

come tizzon quando la fiamma è morta.

Indi tutta s’ascose e d’atre larve

di sanguigno color tutte strisciate

stormo accalcato per lo cielo apparve.

Brontolavano i tuoni, e le solcate

nubi fosco splendean per vampe crebre

con orrenda lugúbre maestate,

mentre dalle piú cupe ime latebre

conturbata la Terra alto s’udia

rimbombar di lung’ululo funebre.[60]

Il paesaggio si illividisce con una coerenza che non è piú quella della bravura retorica arcadico-barocchetta, ma risulta da un impeto certo assai eloquente, ma anche fondamentalmente sincero, da un invasamento piú che letterario che carica parole su parole, e spesso parole di sorgente classica, a volte composte in uno sforzo rinnovatore esemplato sull’Ossian cesarottiano («tenero-insinuantesi tristezza», «vario frangenti») nella tensione di una costruzione tutt’altro che lineare di disegno, ma rudemente coloristica fino a risultati grotteschi. Fino a quel gusto dell’orrore, del macabro che permette all’estremista preromantico di muovere luci vivide ed ombre fosche: gusto che in Italia, proprio per mancanza di un piú deciso movimento romantico a fondo mistico, tentò spesso di fare irruzione nell’Ottocento come punto di partenza di un romanticismo non addomesticato fino alla ripresa pseudoromantica degli Scapigliati, il cui nome ben si può fare di fronte a pezzi di questo genere:

E a quella vòlto immensurabil fossa

tutta la vidi ingombra io di scarnati

bianchicci teschi, di carcami, e d’ossa;

d’informi cadaveri nudati,

le gialleggianti membra a nere note,

a marchi, e strisce livide segnati;

vidi dalle cave occhiaje vuote,

dalle rott’anche, dai petti corrosi,

dalle sformate brulicanti gote,

sporger la testa vermini schifosi,

sovra i guasti corpi in vario giro

istrascinarse poi silenziosi.[61]

Il disprezzo assoluto di ogni decus classicistico, la parola efficace di orrore («gialleggianti»), e di una cadenza senza dolcezza[62], appoggiata su di una furia retorico-sentimentale, non su di una composta calma tradizionale, ci indicano la punta estrema, il tentativo piú esasperato, nella sua scarsa possibilità di una resa artistica, di questa sensibilità preromantica che fornisce cosí alti stimoli indigeni ai romantici ottocenteschi. Mentre la tradizione con la sua forza formidabile (e già in un certo senso appoggiata dall’insorgente neoclassicismo) respinge questo assalto, ne assorbe in parte le esigenze meno rivoluzionarie in sintesi preziose e, combattendo una battaglia per il bello ideale e morale, e per il sublime che non sia l’opposto del bello, espunge il gusto dell’orrore e del brutto come esigenze antiestetiche o li devia in limitato genere di grottesco e di fregio movimentato e parziale di piú ampia decorazione.

Legame con il romanticismo che, in questa fase di estremismo poco formato e che tende a portarsi fuori dalla civiltà settecentesca senz’altro, si rivela piú evidente nella lodatissima Diodata Saluzzo-Roero (1744-1840), la cui attività si estende da tentativi arcadici e classicheggianti lodati dal Parini[63] a componimenti preromantici e a vere poesie romantiche che avevano fatto riconoscere in lei dal Manzoni addirittura l’iniziatrice della nuova poesia in Italia. E se molta della sua produzione è attribuibile al periodo dopo il 1816 (Novelle del 1830, Ipazia del 1827), le lodi del Manzoni e del Di Breme ci precisano la sua maggiore importanza letteraria proprio alla fine del Settecento, quando tra i suoi atteggiamenti di diligente ricercatrice prevalse quello preromantico con intonazione estremista e con chiaro ripudio di regole, mitologia, che ben si saldava poi con le principali esigenze dei romantici 1816. Era in lei fortissima l’esigenza di una poesia popolare canora, che nell’esile schema arcadico introduce una sospirosità sbrigativa, poco lucida, che l’avvicina sí al Vittorelli, ma sulla equivoca strada che conduce al Carrer

(Auretta di maggio – che ’l paggio scuotendo

ne’ lenti tuoi giri – sospiri piangendo,

men lieve ti renda

mio canto d’amore)[64]

e che corrisponde ad una sentimentalità piú diffusa e piú diretta ad una soluzione di chiarezza istintiva, di facilità popolare che non di cristallina e laccata levigatezza settecentesca: l’inclinazione che può condurre alla romanza di Verdi e distacca dall’arietta metastasiana con un gusto di metri efficaci e semplici che vuole universalizzare passioni, non volgarizzare una topica di società.

Difendi o tu che ’l puoi,

i fidi servi tuoi,

tu che risplendi, ed animi

un innocente cuor (1801).[65]

Ma se prendiamo alcune prose poetiche e ricerchiamo cosí sotto l’incrostazione piú cronologicamente romantica il modo di stile della Saluzzo nel periodo che ci interessa, troviamo soprattutto, libero da limitazioni arcadiche, da razionalistici avvertimenti, lo sforzo di fermare nel paesaggio il centro di una effusione sentimentale, di farne nelle sue forme agitate ed orride o languide il mezzo piú efficace di una tecnica di tensione non mirante all’essenziale, all’espressione lirica concentrata, ma a forme descrittive e drammatiche reagenti alla tendenza epigrammatica del Settecento. L’immancabile e prolisso inizio descrittivo, che ha tutt’altra funzione nella tradizione precedente, è idealmente autorizzato nei romantici (specie nei piú agitati come Guerrazzi) dai numerosi esempi della Saluzzo, che venivano a sommare in poesia o in prosa poetica il gusto preromanticistico della natura – dolente suggestione e quasi deuteragonista del dramma dell’uomo, allegoria sensibile di uno stato d’animo – con accenti di «romanzo nero», di interesse per il particolare macabro, emotivo e sensazionale (la necrofilia preromantica è esclusiva e non moralistica): «Alta la morte, profondo il silenzio, gelida l’aura del crudo decembre, tutto destava terrore; fra le rotte e negre pareti, larghi varchi s’aprivano ai dubbiosi raggi di luna, e quei raggi spiranti malinconia formavano fra gli avelli... lunghi e spaventevoli fantasmi»[66]. Paesaggio sentito come sicuro rinforzo poetico e tutto intriso nei suoi colori foschi di sentimentalismo, carico di notazioni psicologiche a volte insinuate in sfumature di colore e di tono.

«Al sibilo del vento notturno, che incurvava passando la cima degli alteri cipressi, e mugghiava rinchiuso tra le caverne del monte, allo scoppiar de’ terribili fulmini frammischiavasi funestamente il profondo singhiozzare d’Adamo: sedeva egli sull’umido muschio tra le pallide viole, ond’era sparsa la tomba»[67].

Anche senza calcolare i presentimenti che paiono scavalcare il romanticismo 1816 fino a certe forme di tardo romanticismo

(Qui, dove segna fra i nascenti pampini

un ruscelletto la tranquilla via,

t’aspetto al raggio della luna candida,

mesta elegia),[68]

un testo come Le rovine è ben capace di suggerire una strada di passaggio fra il preromanticismo e il romanticismo 1816.

Qui forse mentre un molle riso ingenuo

la verginella in dolce sogno apria,

al bel raggio di luna, occulta e perfida

l’oste venia...

Forse qui stretto il suo pugnal, lentissimo

moveva il passo fra tacenti squadre,

e ai fanciullini sul materno talamo,

svenava il padre...[69]

Cosa di cui dette atto il Manzoni nella sua lettera: «S’è Ella trovata nella singolar condizione di passar sotto silenzio cosa appunto che ad altri viene cosí naturalmente al pensiero di un tale argomento; voglio dire la bella e nobile parte che Ella ha in questo nuovo modo, fin da quando, ancor quasi fanciulla, destava la meraviglia di Parini... Interprete della nuova poesia o (a dir rozzamente ciò ch’Ella ha figurato con tanta felicità) del nuovo modo della poesia...»[70]. Spinta entro il vero e proprio romanticismo italiano, la Saluzzo indica cosí, da un’ultima eco di Arcadia popolareggiante e sentimentale al gusto lirico-narrativo romantico, l’importanza di una fase preromantica piú decisa e la sua possibile eredità e riduzione in forme piú assestate, in cui l’originaria ossessione dell’orrido perde la sua furia monotona e si scioglie in una ispirazione che calcola la presenza di un nuovo mondo ideologico, di interessi morali e civili, e risente dell’apporto dell’equilibrio sensistico e della dolcezza idillica caratterizzante le opere piú riuscite della stagione preromantica. Mentre la eccitazione piú estremista veniva respinta volontariamente dai romantici 1816 (l’esempio già portato della recensione del Berchet al Tedaldi-Fores) e resisteva con nuovi modelli europei (donde la interpretazione di una storia del romanticismo italiano come storia del byronismo), in alcuni casi sporadici gli esempi in lingua letteraria dati dai preromantici piú audaci davano frutti nel trapasso al romanticismo autorizzando un ritmo, un periodo, una struttura della poesia o della pagina di prosa poetica, che non son piú, anche fuori dello stimolo ossessivo che li provocò, quelli del Settecento arcadico-illuministico.

Estremismo che giunge alle sue forme piú esasperate, alla costruzione dell’orrido come condizione di poesia, proprio in alcuni prodotti giovanili che magari piú tardi gli autori sconfesseranno apertamente o implicitamente, come avvenne per Tommaso Gargallo che, tenace classicista nella maturità e nella vecchiaia, vide pubblicata, nel 1792 a cura del Napoli Signorelli insieme all’Antonio Foscarini e Teresa Contarini del Pindemonte, la sua novella Engimo e Lucilla. I nomi sono arcadici (Novelle di Polidete Melpomenio e di Lirnesso Venosio), ma se la novella del Pindemonte, in una ripresa di narrazione da poema cavalleresco, prelude al fare popolareggiante delle novelle in versi romantiche, quella del Gargallo rappresenta il massimo dell’esuberanza preromantica fuori di regole e decoro classicistico, presente solo in alcune parole tanto piú stranamente ed insolitamente atteggiate. Non è tanto certa zona di prosa un po’ bertoliana che ci interessa («oh come l’ombra di quel cappellino infosca graziosamente il tuo volto! Tu rassembri allora l’alba, quando sorge velata da una sottilissima nebbia d’argento»[71]), quanto la rappresentazione poetica in paesaggi cupi ed ansiosi, in gesti e figure di un esaltato contenutismo che accentua i dati della moda preromantica in una accettazione appassionata, fuori del successivo calcolo da «rhétoricien» che crebbe poi nel Gargallo come persuasione nella forma ideale del classicismo. La decorosa tradizione italiana rinforzata dal classicismo settecentesco poteva avvertire in documenti cosí estremi il pericolo di una irrimediabile frattura, mentre la mediazione piú modesta di altri preromantici permise in certo senso la possibilità di efficacia di queste forme esasperate.

Già la disposizione della parte in versi è costruttivamente diversa da quella di un poemetto settecentesco, basata com’è su spunti di «crescendo» sentimentale, coerenti a continui rinforzi di illustrazione, di sfondo, che in realtà vengono ad assurgere a motivi dominanti, essenziali nell’elegia allibita e gridata, in cui la narrazione viene a trasformarsi. Non proporzione prospettica di narrazione e descrizione, e, dentro la narrazione, non guida del nucleo d’interesse, ma sviluppo per gradazioni crescenti di effetto sentimentale:

Orrida selva, ove i miei dí funesti

a chiuder vengo, orrida selva bruna,

qual secreto terrore a me tu desti![72]

Questo e non l’avventura è il vero tema a cui l’avventura non presterà che precisazioni di effetto, di eccitazione.

Soggiorno atto a mio duol m’offri opportuno

nera spelonca, ove da un rotto masso

dubbio vacilla il raggio della luna.

Veggo Malinconia sul primo sasso

e Silenzio aggirarsi a lento passo;

sanguigna larva figlia di spavento

mi s’offre e fugge e in quest’orror si mischia

mettendo un acutissimo lamento...[73]

Nell’impasto linguistico che trae origine dal Cesarotti («sramate al suol crollan le piante annose», «i nembi giú in torrente / rovescian saltellon da l’alte rupi») e che si fa piú audace nell’uso insolito di parole di designazione sentimentale a fremiti di ossessione morbosa

(mille angosce mi spinge in mezzo al petto

e in me una smania agitatrice desta),[74]

vengono avventati gridi vibranti e rozzamente risolti in suono e colore

(guizzan le ardenti strisce sanguinose)[75]

che sembrano liberarsi da una tensione accumulata con ogni mezzo, con un concorso di patologia e di retorica, di bruti riferimenti al solito materiale macabro, tutto mosso però fino a forme grottesche con un’insistenza che in certi punti tocca il ridicolo. In un parossistico crescere di visioni di orrore quale la fantasia italiana non aveva cercato nel Settecento piú ardito, l’occasione dei particolari

(e già v’immerge il dente, ed ancor vivo

guizza il cor, si convelle, e sotto i denti

sgorga il sangue dal grifo a doppio rivo)[76]

vibra sotto una luce traballante, febbrile, accresciuta dalla volontà espressa nella prosa didascalica che precede i versi, immaginati come scritti da un innamorato che si uccide per il diniego paterno di rimanere con l’amata: la quale, si noti bene, è presentata come fanciulla adottata ma che l’innamorato crede sorella. Donde una torbida aria di incesto che contribuisce alla singolarità di questa novella preromantica.

Nella sforzatura generale dell’ultima parte, particolarmente caratteristico è come negli espedienti piú esteriori e piú contenutisticamente macabri (fantasmi, scheletri, ecc.) prevalgano, con un senso di orrore che certo ricava parte della sua efficacia dall’accumularsi dei particolari precedenti, il suono e il colore di un paesaggio su cui il poemetto si chiude:

Odo l’acqua gocciar da cavi tufi,

e di ceraste un sibilar notturno,

e un lungo ululo di upupe e di gufi,

e belve urlar, che il raggio odian diurno,

e Borea, che scrosciar fa la boscaglia,

e un volgere di fiumi taciturno.[77]

A parte gli elementi piú vistosi e confortati dalla tematica ormai affermata, l’impressione di angoscia e di orrore ha trovato finalmente un atteggiamento coerente di manifestazione e una musica se pur momentanea:

e un volgere di fiumi taciturno.

Tra forme boccaccesche, abbreviazioni di narrazione arcadica e bertoliana che nella prosa indicano l’incertezza di una tradizione narrativa e arieggiano i tentativi della prosa romantica fino al Tommaseo e agli Scapigliati («Gli occhi frattanto erano offuscati da un’umida nuvoletta, che piú lucidi gli rendea, e già lagrimette furtive v’imbambolavano, alcune delle quali solcano rapidamente le sbianchite guancie, pioveanle sul seno, come minuta stilla di mattutina rugiada su pallidi gelsomini»[78]), fra le prove diversamente preziose e disinvolte di un’Arcadia sfatta e colorita («dai gruppi porporini / di mezz’aperte rose / le perle rugiadose / gocciano pigre al suol»[79]), questi versi, che sembrano rispondere ad un’estetica del brutto, del sublime orrido, al di là della maestà tetra piú comune al preromanticismo, quasi ardente sfogo di una poetica acerba e morbosamente contenutistica, segnano bene il punto di arrivo di una tendenza che si insabbia in una moda, ma insieme pervade un’epoca decisiva per un bisogno di rinnovamento non esteriormente stilistico.

Il gusto dell’orrido in quanto rottura di un equilibrio poetico superato, e contenutistico sfogo di nuove esigenze estetiche e vitali, caratterizza tutto il periodo preromantico nei suoi testi piú coraggiosi e non manca di apparire piú o meno forte anche dove intenzioni compositive piú chiare prevalgono: come nelle celebri Notti romane di Alessandro Verri.

La celebrità delle Notti romane ha sempre costituito ad Alessandro Verri una posizione sicura nei piú sommari testi scolastici come preromantico tout court. Ed una personalità cosí interessante è viceversa sfuggita ad un esame piú preciso che avrebbe, come io ho già fatto in parte nel capitolo II di questo libro, delineato un intero diagramma di storia letteraria nel passaggio di Alessandro da posizioni di paradosso illuministico e di «sensibilismo» sempre piú autorizzato a premessa romantica, al momento della maturità in cui le versioni da Shakespeare, la tragedia originale, insieme alle famose Notti ed ai romanzi, formano un complesso di velleità culturali, di direzioni di gusto, di illuminazioni letterarie e poetiche nell’intreccio di rivoluzione e reazione (che spesso è reazione antilluministica e rivoluzione romantica che viceversa utilizza certe aperture prodotte sotto l’insegna della raison) e nel giuoco allora non precisato di neoclassicismo e di preromanticismo. Se in genere il neoclassicismo in certa sua ansia di perfezione non sorridente, ma crucciata, di incubo, rientra nelle linee piú vaste del fenomeno latamente preromantico, nel caso di Alessandro Verri si può facilmente avvertire che la ricerca di stile eletto, solenne, cosí nuova in chi da giovane era apparso il piú sciolto e vivace assertore di una prosa settecentesca sensibile e ragionevole, anche nelle originali approssimazioni sentimentali, nasce soprattutto dal bisogno di un maggior movimento di grandiosità drammatica ed elegiaca, di un senso piú assorto, piú misterioso, e non di una finitezza gracile e lineare. Cosicché anche qui come in tanti sforzi preromantici non è assente un enfatico appello rivoluzionario che si mescola con la richiesta piuttosto velleitaria di «attica eleganza» e di «molle soavità» di cui parlano gli editori del 1780 e del 1806 delle Avventure di Saffo.

Il risultato di una poetica cosí composita e caratteristica di una maniera, di una cultura letteraria piú ricca che unitaria (e poco sicura nell’adeguazione stilistica dei propri motivi vitali come delle proprie intenzioni, e in cui non mancava la naturale ricerca di una compendiosità paradossale presente ad esempio nella struttura e nel finale del romanzo Erostrato: «Il desiderio insaziabile di gloria non fu al certo nel Macedone inferiore a quello di Erostrato, ma nudrito con piú vasti incendi e con piú gravi sciagure di immense nazioni»[80]), non è dunque la capacità di una fluidità narrativa e romanzesca quanto quella di toni incantati su basi sentimentali con esiti tra idillici e languidi e con punte di tensione linguistica («miserabili torture del cuore», «torrente degli affanni»[81]), spesso scadute in goffe risoluzioni drammatiche, come nella catastrofe del salto di Leucade: «Rivolse gli omeri al mare, gittò in capo il manto, strinse le palpebre, e sospirando si abbandonò per l’indietro a capitombolo»[82]. Non manca mai quella certa muffa retorica che aduggia la prosa dell’ultimo Settecento prima della incisione neoclassica e della prepotenza romantica che di questa abbondanza e di quest’impeto si nutrí sulla linea Foscolo, Mazzini, Guerrazzi; e non manca il velo dell’orrore che esalta anche con ingredienti esteriori, narrativi (i riti misteriosi), la sentimentalità altrove risolta in idilli melanconici («Oh, interruppe Saffo, pur troppo è vano l’orgoglio delle filosofiche esortazioni, se pretende di vincere le angosce di un animo infelice col mezzo de’ raziocini! Ma una fonte che mormora, gli uccelli che garriscono, il mare che sia placido, il vento che sussurra, e piú di tutti l’armonioso concerto della musica e de’ carmi rattemprano, almeno in parte, i piú atroci dolori dell’animo nostro»[83]), o in quell’estetitismo vincitore di pessimismo che è alla base della tenerezza post-arcadica. «Oh felice ignoranza, che non penetrando il futuro, gusta il presente, laddove l’uomo, tanto orgoglioso del suo raziocinio, ritrae da questa medesima facoltà quell’assenzio che si mesce ad ogni presente dolcezza, il dubbio che la fortuna cangi, l’immoderato desiderio di non probabili acquisti, il timore di mali corporei, gli affanni volontari dell’animo, e per fine il piú crudele persecutore di ogni attuale godimento, il timido pensiero della morte»[84].

I toni idillici-descrittivi in cui si raffina o la tendenza già notata nel giovane articolista del «Caffè» ad un’ipersensibilità, e a «pezzi», a piccoli «saggi» (Il mazzo di fiori ad esempio), esitano fra una luminosità sottile, una conclusività di immaginazione e una leggerezza di incanto quasi misteriosa: «Sorgea la splendente luna, e già appariva l’ampio di lei volto dietro le foglie di un denso albero mosse dal vento vespertino. I zampilli delle fontane ed i cristalli da loro cadendo apparivano piú argentei e piú tremoli a quel soave lume»[85]. «Era la notte, e splendea negli atri il raggio di luna, se non ché, talvolta la ricopriva leggiera nube, che spinta dall’aura sull’argenteo volto, spandeva tenebre fuggitive sul terreno sottoposto»[86]. Ma la tendenza alla placidità (non a caso forse il Leopardi iniziò con questa parola, su questo tono il suo Ultimo canto di Saffo) non giunge all’essenzialità neoclassica e si nutre di un eccesso di colore e di aggettivazione: «Placida è tutta la natura, sono freschi i fiori, l’aura è soave, tranquillo è il cielo... io sola in mezzo alla calma universale sono agitata da crudele tempesta»[87]. Dove lo slargo sapiente iniziale e la variazione nella disposizione di aggettivo-nome e nome-aggettivo, mentre devono indicare la cura stilistica che vive e si tormenta nella poetica dei preromantici, mostrano la loro insufficienza a vivere autonomi, senza quel concorso di colori piú carichi, di suggestioni piú potenti con il quale riescono, a volte e con fatica di antologia, a costruire impressioni preziose di labile mistero e di incanto sentimentale: «Sparve nella nube di fumo la odiosa Chimera, e ne uscí un cavallo alato, che trasportava, cinto di risplendenti acciari, intrepido fantasma, sul di cui elmo ondeggiava alto cimiero, come l’abete al vento sulle rocche. Si slanciò lo spettro verso una piú interna via dell’antro: e le donne, spinte dalla curiosità, verso quel sentiero volgendosi, udivano le orme sonanti del corsiero, e la voce di chi lo reggeva al corso; ma quantunque sforzassero le attente pupille, era già dileguato da quelle, come leggiera nebbia al raggio del sole...»[88]. Risultati fra pomposi e labili che sul modulo classicheggiante attraggono non piú il semplice particolarismo pittoresco come in certe pitture di rovine del primo Settecento, ma una piú vasta suggestione che tende a trasformare piú che a comporre gustosamente, come in certo senso poteva fare su di un piano ancora limitato e a suo modo perfetto Gaspare Gozzi: «quand’ecco ella prese colla destra mano, chinandosi, quanta rena poteva raccogliere, e la ristrinse, e quindi la gittò all’aura; e quantunque sembrasse il mare tranquillo, e fossero immobili le foglie della pendente edera all’ingresso dello speco, nondimeno quella rena, quasi spinta da vento impetuoso, si sparse in lunga striscia direttamente verso Cipro»[89].

Del resto lo schema classicheggiante è in realtà assai stentato nel Verri malgrado i suoi sforzi evidenti di aulicità, anche nelle Notti romane, in quel corrusco lampeggiare di pesante preromanticismo sul paludato disegno di «antichità» romane. Anche in quell’opera che, sullo spegnersi del periodo piú specificamente preromantico, deve la sua fortuna al confluire di due toni e del rinforzo che al predominante tono preromantico dette quello piranesiano dell’antichità monumentale, ed indica perciò piú chiaramente la sutura fra preromanticismo e neoclassicismo in termini anche di costume letterario, di moda (anche se creativamente l’impasto nasceva da esigenze piú unitarie e singolari), la poetica del Verri mantiene come punto di partenza non il miraggio della finitezza e del mito classico, ma la ricerca di una grandiosità lugubre, di un tono scuro e sanguigno, di una struttura in cui le misure grandiose del sepolcro classico vivono in quelle piú impetuose di una selvaggia primitività di «natura». L’incubo della lontananza del passato si mescola a quello della solitudine e della morte, e le storie di una grandezza rivista attraverso la malinconia e l’orrore di uno spazio troppo assoluto, di proporzioni troppo massicce, sono mosse entro un’aria notturna e una solitudine di campagna squallida che portano come una cappa di ribrezzo su quel mondo sotterraneo e mediato nel mistero delle apparizioni fantomatiche.

«Quindi se avveniva che per le tacite selve o lungo i flebili ruscelli io andassi a diporto, senz’altri testimoni de’ miei pensieri che l’aura e gli augelli, la mente, ingolfata in quelle meditazioni, si lanciava quasi da queste membra a’ secoli remoti»[90].

E quando il vento notturno spenge la face con cui si illuminava torbidamente la discesa nel sepolcro, il ribrezzo animato da un gelido fuoco immaginoso occupa le pagine con una tensione superiore al risultato e mezzi di suggestione intervengono (spettri, splendori fosforici) non tanto con il gusto del romanzo nero quanto con la persuasione di un contributo alla grandiosità di una evocazione di incubo maestoso, piranesiano. «Già la mente s’ingolfava nel pelago tenebroso, già scendevano i pensieri nel regno inconsolabile della morte, e secondo l’antica loro consuetudine erano ansiosi di ragionare co’ trapassati. Quand’ecco udii un flebile mormorio uscire dal profondo, composto di suoni inarticolati con lenta cantilena. Parea vento che freme nelle valli...»[91]. Cosicché accanto a notazioni piú semplici di gusto preromantico, accresciuto dalla capacità già viva nei romanzi di toni piú labili e piú segreti («Aveano le fanciulle, spente nella primavera della vita, floride le sembianze, quantunque oscurate dal triste letargo della morte»[92]), è il gusto della «magnificenza» antica, nella sua suggestione di archeologia, di rovina, di soprarealtà che accentua e giustifica il ritorno di lugubre ed allucinata solennità che domina il libro.

È il nome di Piranesi che si presenta a chi cerca le ragioni di questo libro e la definizione di questo atteggiamento preromantico aiuta a capire la situazione di questa cultura letteraria anche nella sua aspirazione neoclassica piú genuina e profonda. Se non è il Piranesi delle carceri è certo il grande poeta delle antichità romane, della Magnificenza ed architettura dei romani, in cui incubo e furia, meno evidenti in una suggellata tensione di proporzioni, si svolgono oltre il brio lugubre di Salcisedio Tiseio (il nome arcadico di Piranesi), in un ritmo di corruschi bagliori, di natura ossessionata trasparente in ermetica decorazione di orrore. La luce che il Verri raccoglie tra lunare e di alba alla vista delle antichità, l’aria di mistero complicata dai temi piú comuni del preromanticismo («Luce dubbiosa, come aurora nella quale trasparivano, quasi velate da vapore, le vaste ruine, gli eccelsi templi, gli splendidi palagi, i monumenti... Parea sacro l’aere, e quasi consapevole de’ segreti portenti. Un leggiero alito di vento vespertino agitava le fronde, solo in tanto silenzio si udiva il mesto canto degli augelli notturni entro le ruine»[93]) tendono a rilevare in una tinta soprannaturale il dramma glorioso della «magnificenza» e, se Piranesi moriva con Livio e Verri dichiarava invece funeste le illusioni che portarono i romani alla loro potenza, esteticamente ambedue miravano, se pure con poesia cosí inferiore nel Verri, a un mondo fantastico estremamente teso, tutt’altro che mengsiano o pariniano, vissuto da entità in cui la robustezza classica si fa ossessione e confina con una barbarie mostruosa, mentre l’impreciso preromantico si rafforza in struttura e si sottrae alla semplice ribellione contro l’illuminismo arcadico-sensistico.

Cosí il gusto del paradosso (Lucrezia non violata nel colloquio VI) tipico di Alessandro, la mordente sensibilità del virtuoso nei confronti del morbido accuratamente esperito («I corpi destinati a quelle barbare celebrità – i gladiatori – erano delicatamente nutriti, affinché le membra nude esposte a’ colpi fossero candide, pingui, belle, e le ferite in loro piú carnose e mirabili, ed apportatrici di sublime tristezza all’anima de’ spettatori»[94]), la reazione convulsa e controllata agli effetti del macabro e dell’orrido (tutto il lungo racconto del parricida che non si giustifica come semplice concessione al narrativo, e le immagini insistenti e replicate di mostruose apparizioni anche nei limiti della figura umana registrati dal sensista implacabile ed eccitati dal romantico in fermento: «Era senz’occhi e senza mani... gli grondavano dalle caverne de’ spenti occhi lacrime sanguigne»[95], immagini divenute già tiranne di ogni suo pensiero), non rimangono a sé o si tendono in una ribellione disordinata e insofferente, ma cercano una inquadratura ed un rinforzo nell’orrore autorizzato di una magnificenza ridotta in rovine, capace nei suoi potenti residui di offrire pilastri sicuri, indici di vitalità non languida, non idillica: riferimento ad un’ansia che in altri preromantici rimaneva confusa con la sospirosità arcadica, con la ricerca curiosa e sensibile di un irrazionale sensistico, e che qui trova la sua definizione migliore: «Quell’impeto che spinge l’animo nostro verso l’avvenire, e lo fa ansioso degli eventi, e presago investigatore, lo respinge parimente verso il passato...». La stessa poesia delle rovine che affiora nella nostra civiltà estetica settecentesca nella seria pittura di Marco Ricci e si arcadizza qua e là nei vari Zais, Zuccarelli, ecc., nelle Notti ha ormai non una destinazione gustosa o un’ispirazione di prezioso frammentismo neoclassico, ma si gonfia di oscure ansie, di motivi sepolcrali tra younghiani e prefoscoliani («Quindi in ogni tempo anche le piú barbare nazioni, seguendo una tale ingenita pietà, o con le fiamme o co’ balsami si studiarono di preservare gli spenti dagli oltraggi della distruzione, e di far perpetua la ricordanza loro»[96]), di un richiamo grandioso e severo alla barocca caducità, trasportata in un mondo in cui civiltà e natura si mescolano sulla misura del sentimento. I toni piú idillici vengono tenuti come sfumature, gradazioni di una sostanziale elegia («Altri contemplano con soave tristezza le maestose ruine degli imperi scaduti»), e la loro è una funzione secondaria rispetto all’impegno tetro di tinte cupe, di ritmi dolenti nella loro faticosa e monotona solennità[97]. La meditazione di tipo pessimistico volneyano, con la sua intonazione riflessiva e abbandonata (e non importa se il giacobino e il conservatore vagheggiano un presente ben diverso), con la sua nostalgia del passato e il segreto, inconfessato gusto della rovina, si incontra in alcune pagine delle Notti, e soprattutto nel Colloquio VI, con una mediocre sostenutezza e con l’amore della magnificenza tesa e romantica che viene attribuita alla vita del passato. Con piú abbandono il viaggiatore francese, nella celebre pagina che trovò la sua vita piú illustre nei pretesti offerti alla Ginestra, aveva indicato i temi meno ragionativi della poesia delle rovine: «Ici, me dis-je, ici fleurit jadis une ville opulente: ici fut le siège d’un empire puissant. Oui, ces lieux maintenant si déserts, jadis une multitude vivante animoit leur enceinte; une foule active circoulait dans ces routes aujourdhui solitaires. En ces murs oú règne un morne silence, retentissoient sans cesse le bruit des arts, et les cris d’alégresse et de fête... Et maintenant voilà ce qui subsiste de cette ville puissante, un lugubre squelette! voilà ce qui reste d’une vaste domination, un souvenir obscur et vain? Au concours bruyant qui se pressoit sous ces portiques, a succédé une solitude de mort. Le silence des tombeaux s’est substitué au murmure des places publiques... Les palais des rois sont devenus le repaire des fauves; les troupeaux parquent au seuil des temples, et les reptiles immondes habitent les sanctuaires des dieux...»[98]. «Ici» e «jadis» sono i temi essenziali della meraviglia e della nostalgia e il predominio del «morne silence» indica a quale colore tendesse il materialista abbandonato alla «mélancolie profonde». Ma in Alessandro i «lamenti delle ombre sulle ruine» sono piú pittoreschi, piú precisati illustrativamente, piú aderenti a un disegno e a quella linea classicheggiante che appunto nel suo preromanticismo serve a sostenere i suoi impeti piú indiscriminati. «Ohimè chi ravvisa ora le vestigia appena de’ marmorei atri, e de’ monumenti augusti fra i pingui erbaggi, e le zolle immonde! – Facevano eco a que’ lamenti le turbe, e tale spettro guardando una urna vòta soggiunse: – qui giaceano le nostre ossa; ora il vento ne sparge la polvere divenuta ludibrio suo... La superba cima de’ cipressi ondeggia al vento sulle deserte ruine, e le radici loro penetrano in quelle, dove non giunge da secoli il raggio del sole. Giacciono le marmoree colonne dell’Asia, sono disperse le basi come vile ingombro del campo, e queste che reggono alle ingiurie vostre, alte ruine della reggia, rimangono insegna di barbara desolazione...»[99]. E dopo alcuni riconoscimenti dolenti di Cicerone e di Augusto, le ombre compiono addirittura una specie di visita archeologica che, pur dando motivo a riflessioni di carattere storico e moralistico, costituisce come una serie di preromantiche e tese «vedute» romane. Tutta la seconda parte (Sulle ruine della magnificenza antica) risente di questa trasposizione scenografica e pittoresca e porta la poetica del Verri alla sua maggiore complessità facendone un esempio cospicuo della maniera preromantica italiana, anche se nei suoi lineamenti estremi ed entro termini di decoro monotono e pesante. Ben lontana da quella colorita e leggera del Bertola, la prosa delle Notti ha, pur nella sua difficoltà di fusione, la pretesa di un tentativo complesso e unitario con cui fece i suoi conti la prosa romantica ben altrimenti che con la prosa settecentesca di «elogi» accademici, anche pindemontiani. Nella serie di esperienze, di impasti letterari che caratterizzano nella loro provvisorietà il clima preromantico, poche furono cosí decisive e complesse come questa, tanto che la sua azione poté esercitarsi non solo come complesso di quadri suggestivi rafforzanti su piano di maggiore modernità l’influenza dell’Ossian, ma come tentativo stilistico di risoluzione del problema struttura razionale e movimento pittoresco-sentimentale. In certo senso un impasto Ricci-Piranesi su cui sian passate le ombre delle nubi tempestose di un Magnasco.


1 Si noti come periferica osservazione il bisogno entusiastico che provano i letterati italiani in quel periodo di mediare, di comunicare la loro conoscenza, di tradurre, di certificare a se stessi il loro acquisto, astratto se non calato in un equivalente italiano.

2 La sua «dizione» fu sempre molto discussa dai classicisti, a nome dei quali l’editore B. Gamba (Alcune operette in prosa di A. Bertola, Venezia 1829) limitava: «L’arte sua di esprimere o in isciolta o in legata orazione quel sentimento che discopre i piú segreti ripostigli del cuore, il suo brio d’invenzione e la vivezza e convenienza del suo colorito sono quei veri, ma soli titoli che gli assicureranno sempre un posto distinto fra gli italiani scrittori». C’era l’indicazione cioè alla sua impostazione di ricerca spregiudicata e ferma, preziosa in termini piú di efficacia che di regolarità.

3 A. Bertola, Le Notti, Arezzo 1775, p. VII.

4 «La sua sensibilità non ha pari, ma estendendola sopra successivi ed infiniti oggetti, varia ad ogni istante quello su cui esercita e pure, se valutare si volesse la sensibilità per gradi, te ne donerebbe egli un giorno solo piú ch’ogni altro in piú anni», I. Teotochi-Albrizzi, Ritratti, a c. di T. Bozza, Roma 1946, p. 46. E la Teotochi precisa i suoi amori letterari: «Gli autori dilicati e morbidi gli piacciono piú che i forti e severi. Tacito, Dante, il Machiavelli, l’Alfieri, increspano troppo i suoi nervi, quasi gli spezzano» (ivi, p. 49).

5 A. Bertola, Le Notti, ed. cit., p. VII.

6 Ivi, p. X.

7 A. Bertola, Idea della bella letteratura alemanna, Lucca 1784, I, p. 25.

8 Esorbita dal nostro studio un’indicazione precisa della finezza di linguaggio critico del Bertola che ci pare arricchire, sulla fine del Settecento, il nostro vocabolario critico con richiami alla tecnica pittorica.

9 A. Bertola, Idea. cit., I, p. 73.

10 Ivi, I, p. 105.

11 Ivi, I, p. 87.

12 Ivi, II, p. 15.

13 Ivi, II, pp. 28-29.

14 A. Bertola, Operette in prosa, Venezia 1829, p. 56.

15 Ivi, p. 82.

16 Ivi, p. 132.

17 Lo cito nella edizione di A. Baldini (Firenze 1942) in cui le pagine introduttive dello scrittore romano accentuano piú del necessario, ma con effetto notevolissimo, il lato «pittorico», di giornalista turista di un Bertola piú gustoso della sua verità storica.

18 Viaggio, ed. cit., p. 67.

19 Ad esempio la parola «terribile» divenuta anche categoria di bellezza, e magari di «amenità»; tipica posizione del «teorico della grazia»: «quella grata sorpresa che ne crea l’ameno conseguito per le vie del terribile» (ivi, p. 66).

20 Ivi, p. 241.

21 Ivi, p. 227.

22 Ivi, p. 143.

23 «Siffatte degradazioni di molle verdura quasi nel centro di orride rupi eccitano una súbita maraviglia e sarebbero degne de’ piú signorili giardini» (ivi, p. 102).

24 Ivi, p. 157.

25 Ivi, p. 114.

26 Ivi, p. 107.

27 Ivi, p. 229.

28 Ivi, p. 115.

29 Ivi, p. 166.

30 Ivi, p. 122.

31 Ivi, p. 151.

32 Difficile è distinguere dove la vicinanza ai testi è priva di appoggio nella autorizzazione delle traduzioni. E ad ogni modo ciò che piú conta è la messa in valore di modi e di espressioni nuove che solo dalle traduzioni poteva prendere stabile origine.

33 «L’autore mostrerà sinceramente al pubblico qual metodo ha tenuto in tentare questo genere di lirica, quali errori ha commessi, come ha procurato correggersene, quanto potrebbe questo ancora perfezionarsi, quali nuove strade restano da calcolarsi ai lirici italiani onde rendere questo genere di poesia perfetto, degno di servire la pubblica istruzione e capace di formare il popolo ecc.» (prefazione di Labindo all’edizione Italia, Genova 1800).

34 Fantoni, Poesie, Bari 1913, p. 290.

35 Ibid.

36 Ivi, p. 297.

37 Ivi, p. 308.

38 Firenze 1779, ma io cito dal X volume dei Poemetti italiani, Torino 1797.

39 Ivi, p. 101.

40 Ivi, p. 108.

41 Ivi, p. 120.

42 Piú tardi il Pignotti che aveva cosí collaborato alla preparazione del romanticismo fu tenace oppositore di questo e le sue Lettere sui classici venivano ripubblicate nel ’23 a Pisa proprio perché «anco l’Italia vien minacciata d’essere involta fra poco fra le nebbie del romanticismo».

43 Poemetti italiani, ed. cit., X, pp. 121 ss.

44 Pignotti, Poesie, Firenze 1823, vol. I, p. 47.

45 Ivi, I, p. 46; il corsivo è nostro.

46 E. Bertana, recensione ad un libro del Simioni, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1907, L, p. 219.

47 Prefazione di L. Carrer a Poesie di I. Vittorelli, Venezia 1851, p. 2.

48 A. Mazza, Poesie, Firenze 1794, I, p. 3.

49 Ivi, I, p. 133.

50 Ivi, II, pp. 94 e 95.

51 In E. Bertana, In Arcadia, Napoli 1909, p. 435.

52 In Poeti minori del ’700, a cura di A. Donati, Bari 1913, II, p. 257.

53 Ivi, II, p. 255.

54 Ivi, II, p. 270.

55 In Poemetti italiani, ed. cit., XII, p. 60.

56 Canti del Solitario delle Alpi, Genova 1794, pp. 156 e 158.

57 Canti del Solitario delle Alpi, Genova 1792, p. 3.

58 Nell’edizione del 1794, pp. 64, 65, 73, 74.

59 A. Mazza, Poesie cit., vol. I, p. 91.

60 Ibid.

61 Ivi, I, p. 101.

62 Ricerca di toni cupi che si associa all’amore per stanche cadenze suggestive per il loro ripetuto abbandono, in un accordo monotono di desolata visione sonora che, con le dovute immense distanze, fa ripensare il metodo di suggestione malinconica di Poe per es. in Ulalume:

E in piagge stetti solitarie e mute,

sparse di rocche, che deserti e nudi

aveano i fianchi, e l’irte punte acute,

e cento per lo piano e per le rudi

framezzanti vallee, cui nullo cole

capraio od arator, giacean paludi.

Fosco bruno era il ciel, siccome suole

mostrarse in invernal dí nugoloso,

giunta quell’ora in cui tramonta il sole:

queti gli augelli stavano a riposo

pe’ fessi lati dei dirupi infranti,

e alto cingea silenzio il lido ombroso

se non che ad ora ad or rospi attristanti

lugubre sibillavano nascosi

tra i giunchi delle sozze acque stagnanti.

(Poesie cit., pp. 73-74)

Dove si noti come il massimo risultato si ha dove c’è l’abbandono anche del lessico classicheggiante per forme stentate ed incerte.

63 Il Parini nelle sue lodi (lettera del 12 febbraio 1797, Opere, II, p. 199) accenna anche a qualità nuove: «Novità conseguente di concetti e d’immagini».

64 D. Saluzzo, Versi, Torino 1816, III, p. 264.

65 Ivi, II, p. 132.

66 Ivi, IV, p. 200.

67 Ivi, III, p. 269.

68 Ivi, II, p. 29.

69 Ivi, II, pp. 8-9.

70 A. Manzoni, Lettere, Milano 1970, t. I, p. 414; la lettera è del 19 aprile 1827.

71 Novelle di Polidete e di Lirnesso, Napoli 1792, p. 36.

72 Ivi, p. 86.

73 Ibid.

74 Ibid.

75 Ivi, p. 87.

76 Ivi, p. 90.

77 Ivi, p. 92.

78 Ivi, p. 56.

79 Ivi, p. 86.

80 A. Verri, Romanzi, Milano 1820, vol. I, p. 276.

81 Ivi, I, p. 108.

82 Ivi, I, p. 184.

83 Ivi, I, p. 130.

84 Ivi, I, p. 49.

85 Ivi, I, pp. 49-50.

86 Ivi, I, p. 100.

87 Ivi, I, p. 46.

88 Ivi, I, p. 93.

89 Ivi, I, p. 13.

90 A. Verri, Notti romane, Bari 1967, p. 3.

91 Ivi, p. 6.

92 Ivi, p. 7.

93 Ivi, p. 145.

94 Ivi, p. 87.

95 Ivi, p. 33.

96 Ivi, p. 221.

97 La «meravigliosa monotonia» di cui parla C. Ugoni nella sua Vita di A. Verri (Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII, Milano 1856-58, II, p. 145).

98 C. Volney, Les ruines etc., Paris 1792, pp. 6-7.

99 A. Verri, Notti romane, ed. cit., pp. 164-165.